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 2008  novembre 20 Giovedì calendario

Panorama, 20/11/2008, RAFFAELE PANIZZA «Spiegazione molto semplice: cinesi più veloci». Risponde impettita la parrucchiera di via Paolo Sarpi, la Chinatown di Milano, a chi le domanda come faccia a far pagare 6 euro uno shampoo più piega, 15 euro un’acconciatura per spose

Panorama, 20/11/2008, RAFFAELE PANIZZA «Spiegazione molto semplice: cinesi più veloci». Risponde impettita la parrucchiera di via Paolo Sarpi, la Chinatown di Milano, a chi le domanda come faccia a far pagare 6 euro uno shampoo più piega, 15 euro un’acconciatura per spose. «Italiani addormentati» rincara, aprendo e chiudendo le forbici con snervante lentezza, fingendo di assopirsi in piedi. Il concetto è chiaro: a parità di tempo, noi soddisfiamo il triplo dei clienti, quindi costiamo di meno. Origliato il ragionamento, una cliente italiana di mezz’età, quasi in catalessi per un estatico massaggio alla cute, conferma tutto: «Io ho tempo di fare la piega solo durante la pausa pranzo, spesso i parrucchieri italiani sono chiusi. Inoltre, tra chiacchiere varie e attesa, come minimo va via un’ora. Qui, invece, in mezz’ora sono fuori». Se le sentissero parlare così, i tanti acconciatori italiani che da Padova a Napoli stanno martellando le asl, la polizia annonaria e gli ispettorati del lavoro per denunciare la presunta concorrenza sleale dei parrucchieri arrivati dall’Oriente non esiterebbero a strozzarle tutte, magari con un cappio fatto di extension. Sono davvero incavolati gli acconciatori italiani. Lamentano fatturati a picco e assunzioni bloccate. E sono certi di aver individuato la causa principale delle loro sfortune, benché la concorrenza straniera, nelle grandi città, non rappresenti più del 3 per cento del totale. Ne sa qualcosa la giornalista Ilaria Solari, che sul settimanale Gioia ha pubblicato poche settimane fa il divertente resoconto di un pomeriggio passato in un salone cinese. Un articolo che però ha fatto così tanto infuriare molte parrucchiere italiane da spingerle a inondare la redazione con email di protesta, insulti e giuramenti solenni di non rinnovare l’abbonamento alla rivista. Sul fronte delle minacce qualcuno ci è andato pesante. Lo racconta L., parrucchiere di via Padova a Milano, che si è ritrovato la vetrina del negozio agghindata con un nefasto avvertimento. «Insieme ad altri colleghi avevamo cominciato a riunirci nel mio salone per concordare una strategia per difenderci dall’avanzata cinese» racconta oggi, chiedendo di mantenere l’anonimato. «Una mattina, arrivato in negozio, ho trovato una pistola giocattolo appesa alla maniglia. Ho pensato a un bambino, o a qualcuno che l’avesse dimenticata. Poi guardando la vetrina mi si è gelato il sangue: con un pennarello nero qualcuno aveva scritto ”Chiuso per lutto”». Solo una coincidenza? Probabile. Difficile pensare alle triadi cinesi pronte a scatenare una faida per difendere il business della messa in piega. Ma da quel giorno, comunque sia, fine delle riunioni e delle iniziative di protesta. Anche se la guerriglia, sotterranea, va avanti. Con appostamenti e sguardi torvi, rappresentanti di ditte cosmetiche mandati in avanscoperta a controllare il campionario in dotazione ai vari signor Wu e le parrucchiere nazionali che ingaggiano le figlie adolescenti per spiare usi e costumi degli odiati concorrenti. L’ha fatto E., esasperata coiffeuse quarantenne impegnata nella lotta all’evasione fiscale: «Mi era giunta voce che i cinesi non rilasciassero scontrini» racconta sibilando. «Allora ho portato mia figlia tredicenne a fare shampoo, piega, balsamo e piastra in un locale aperto a un passo dal mio. Totale, 6 euro. Abbiamo chiacchierato in italiano per tutto il tempo finché, alla fine, ho chiesto la ricevuta fiscale. E come per magia, nessuno parlava più la nostra lingua. Alla fine ho scoperto che non avevano neppure il blocchetto». Gira e rigira, le recriminazioni sono sempre le stesse. Ti sbattono sotto il naso un tubetto da 50 millilitri di tintura, prezzo 8 euro e 30 centesimi, e attaccano: «Per una tinta bisogna usarne uno intero. Mi spiega come fanno a metter fuori taglio, colore e piega a 20 euro?». E poi c’è il dubbio igienico. Cristiano, che conduce con il padre un elegante salone all’Esquilino, la Chinatown romana, giura di aver visto i cinesi prepararsi gli spaghetti nel retro del negozio, a un passo dai caschi per la permanente. «E come se non bastasse, aprono e chiudono quando vogliono. Non rispettano il riposo domenicale e, per me, dormono direttamente dentro i negozi. I parrucchieri cinesi sono gli unici esercizi commerciali dove la saracinesca, al mattino, viene sollevata dall’interno». E se al posto delle cattive intenzioni ci fosse solo una colossale incomprensione culturale? «A Shanghai, dove vivevo, la domenica era il giorno in cui si lavorava di più. E il venerdì e il sabato si andava avanti fino a mezzanotte. Siamo stati educati ad adattarci alle esigenze dei clienti, per noi è normale» spiega Xioyan, 42 anni e una capigliatura con frangettona anni Settanta striata di ciocche melograno. Nella sua botteguccia di Porta Palazzo, a Torino, è involontariamente esposto tutto il necessario per inquadrare il fenomeno. L’igiene è lasciata un po’ a desiderare, in effetti: le spazzole giacciono tutte insieme in un tazza da Nescafé, talmente piene di peluria da assomigliare a una covata di roditori pronti a sgattaiolare via. I prodotti, nonostante i manifesti L’Oréal esposti in vetrina, sono quelli della grande distribuzione. Oltre a tubettoni di tinta da mezzo chilo con le istruzioni scritte in ungherese, cinese e arabo. Niente vestagliette o asciugamani monouso, ma un unico asciugamano bianco da appoggiare sulle spalle, molto simile a quelli da bidet, igienizzato di solito nelle lavanderie a gettoni e poi steso nel ripostiglio del negozio, fra taniche di liquido non meglio identificato e avanzi di cibo a macerare in curiosi wok elettrici. Niente lamette monouso. Niente sterilizzatore... Tutti costi in meno. E il sospetto, insistono gli italiani, è che il risparmio venga anche dallo sfruttamento del lavoro nero. Fronte sul quale gli ispettorati sembrano intenzionati ad andare a fondo: «Grazie a una nuova direttiva del ministero del Welfare, ora siamo in grado di stabilire quali siano le priorità di ciascun territorio» spiega Paolo Weber, direttore dell’Ispettorato del lavoro di Milano. «Fino a ora ci siamo concentrati sui settori interessati al fenomeno degli infortuni sul lavoro. Ora ci dedicheremo con maggiori risorse anche a questo tipo di irregolarità». A ben vedere, non è però così facile trovare gli schiavi. I parrucchieri cinesi spesso sono piccole ditte familiari, gente che cerca di affrancarsi dalle dure condizioni di lavoro nei laboratori tessili. A tirare mezzanotte con la serranda semiabbassata spesso sono gli stessi proprietari, non passibili quindi di infrazioni sullo sfruttamento della manodopera. E poi ci sono i «preposti», gli acconciatori italiani che vendono ai cinesi mantenendo però una piccola quota, e garantendo così la regolarità dell’esercizio. Un meccanismo che permette ai nuovi proprietari di abilitarsi alla professione con tre anni di apprendistato sotto la guida di una persona già in possesso della qualifica. Anche sull’illimitato potere d’acquisto del dragone girano malumori e leggende metropolitane. «Arrivano e pagano in contanti» riferisce chi ha venduto «deve esserci sotto qualcosa di losco». Che i capitali della mafia cinese non c’entrino nulla tenta di spiegarlo Daniele Cologna, sinologo dell’agenzia di ricerche sociali Codici: «La loro capacità imprenditoriale è legata all’uso del guanxi, un insieme di linee di credito fiduciarie instaurate tra i membri di una famiglia o di un nucleo allargato di conoscenti. I cinesi si prestano soldi senza interesse, insomma, secondo una logica di relazioni di reciprocità». Precisazioni che valgono poco agli occhi del parrucchiere furioso: «Vadano pure a farsi la tinta dove vogliono» sbuffa Franco, direttore di tre saloni a Milano, «ma si ricordino che per rimediare a un danno chimico ci vuole una maschera di collagene da 100 euro». Ma è la solita signora dalla lingua tagliente a far pervenire il punto di vista ufficiale di Pechino, con il suo italiano elementare ma chiarissimo: «Noi non bravi? Cinesi scuola di parrucchiere cinque anni. Italiani solo tre». La guerra è guerra.