Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 14/11/2008, 14 novembre 2008
In questi 16 mesi di crisi finanziaria globale, della quale ancora non si intravede l’esito, le banche centrali hanno finito per cambiare un po’ mestiere
In questi 16 mesi di crisi finanziaria globale, della quale ancora non si intravede l’esito, le banche centrali hanno finito per cambiare un po’ mestiere. Fino all’ estate del 2007, oltre alla vigilanza sull’industria del credito, la Federal Reserve americana, la Banca centrale europea con il concorso delle banche centrali nazionali dell’Eurosistema e la Banca d’Inghilterra controllavano il cambio del dollaro, dell’euro e della sterlina e dettavano la politica monetaria manovrando i tassi a breve termine con piccole variazioni di piccole quantità delle loro disponibilità storiche. Adesso, le banche centrali esercitano altre due inedite, delicatissime funzioni: intermediano ingenti flussi di denaro tra le banche vigilate, che non si scambiano più i fondi sul mercato interbancario come facevano in precedenza; assumono sui propri libri posizioni rischiose che fino a ieri avrebbero respinto, sdegnate, al mittente. L’allargamento delle competenze delle banche centrali accade per la forza degli eventi più che per un disegno razionale di riforma. E fa parte di un complesso di interventi statali in molti Paesi del mondo a sostegno di un’attività economica che ha ormai assunto dimensioni mai viste. Nel suo ultimo Financial Stability Report, la Banca d’Inghilterra stima in 4,5 miliardi di sterline, ovvero 5,5 miliardi di euro, il complesso degli aiuti, per due terzi destinati a fornire garanzie alle passività dei vari sistemi bancari nazionali, non di rado contro garanzie di qualità scadente, e per l’altro terzo destinati ad aumentare i capitali delle banche e a ritirarne i titoli tossici a prezzi il più delle volte superiori a quelli di mercato. Un esborso aggregato di tal fatta è pari alla metà del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti. I nuovi mestieri modificheranno, ma difficilmente aumenteranno, l’influenza delle banche centrali sulla definizione delle politiche economiche dei Paesi più importanti. Al di là delle diverse strutture proprietarie, le banche centrali hanno finora goduto di una larga autonomia dai governi. Oggi questa autonomia è in pericolo. Il fenomeno può preoccupare quanti, specialmente nei Paesi come l’Italia meno portati alla disciplina finanziaria, vedono nella banca centrale il baluardo del rigore di fronte alla politica che compra consenso con la spesa pubblica. Ma prima di preoccuparsi conviene capire. In questi mesi drammatici, le banche centrali non avrebbero potuto tirarsi indietro, ancorché certe scelte – l’aver lasciato fallire Lehman Brothers per esempio – siano state subìte e poi censurate. Ma gli effetti contabili dei nuovi mestieri sono tali da giustificare la preoccupazione, o la speranza, che l’autonomia venga meno. Il primo effetto è l’abnorme rigonfiamento dei bilanci delle banche centrali. Il totale delle attività della Fed all’inizio di agosto del 2007 era inferiore ai 900 miliardi di dollari; ora sfiora i 2 mila miliardi. Quello dell’ Eurosistema che fa capo alla Bce non arrivava ai 1200 miliardi di euro e adesso supera quota 1900. Il totale delle attività della Banca d’Inghilterra ha compiuto un balzo ancora maggiore: da 82 a 251 miliardi di sterline. Il secondo effetto è l’aumento della leva finanziaria delle banche centrali, ovvero di quell’indebitamento che ha consentito per anni alle banche, e ancor più alle investment banks, di fare soldi con i soldi altrui, ma che poi ha condotto queste ultime all’ingloriosa scomparsa e le prime alle attuali, gravi difficoltà. Per quanto i bilanci non siano omogenei, perché diverse sono le storie e le leggi, due filoni emergono comunque. Nell’Europa del capitalismo renano, le banche centrali hanno una certa robustezza patrimoniale dalla quale derivano la capacità di risolvere i problemi delle banche vigilate senza bisogno di soccorsi governativi. Il salvataggio del Banco di Napoli offre un esempio in materia. Nel capitalismo anglosassone, invece, le banche centrali sono più leggere. Operano con capitali propri irrilevanti o ridotti lasciando al Tesoro l’onere dei salvataggi e i profitti accumulati giorno per giorno. Ebbene, la leva dell’Eurosistema è cresciuta ma non troppo: il valore degli attivi passa da 6 a 8 volte il patrimonio netto rettificato dalle plusvalenze implicite nell’oro e nel ricco portafoglio di titoli pubblici. Nella Fed e nella Banca d’Inghilterra, invece, il valore degli attivi in rapporto al patrimonio balza rispettivamente da 26 a 49 volte e da 30 a 114 volte. Certo, i rendiconti delle due banche centrali non danno notizie buone per rettificare i patrimoni, e alleviare così la leva, ma la natura degli attivi fa presumere modeste le eventuali plusvalenze da portare a rettifica. I nuovi mestieri, dunque, aumentano le dimensioni e i rischi, ma cambiano anche la natura delle banche centrali. Intermediare flussi tra banche vuol dire ricevere denari in deposito da alcune banche a un tasso contenuto, perché il prenditore dà le maggiori garanzie, e far credito alle banche a un tasso più alto. Da prestatrice di ultima istanza la banca centrale si trasforma così in banca delle banche. Prima della crisi, la Fed era esposta sull’interbancario per 20 miliardi di dollari di pronti contro titoli. A fine ottobre l’esposizione sale a 751 miliardi senza contare i 540 miliardi scambiati con le altre banche centrali per rendere liquidi titoli in valuta Usa detenuti da operatori non americani. La Banca d’Inghilterra è passata da un’esposizione a breve per 15 miliardi di sterline a una a lungo termine per 129. Meno clamoroso, e però rilevante, l’impegno dell’Eurosistema: da 462 a 791 milioni di prestiti alle banche. Benché inevitabile, far da banca alle banche è funzione impropria: può durare per un po’ di tempo, non per troppo. A metà settembre il governatore Mervyn King era arrivato a minacciare le dimissioni se il primo ministro Gordon Brown avesse insistito ad assegnare alla Banca d’Inghilterra il ruolo di agenzia pubblica garante e regolatrice dell’industria dei mutui nazionalizzata. E a fine ottobre, nel Financial Stability Report, la Banca centrale inglese ribadisce la necessità di tornare nel medio-termine alla normalità della raccolta bancaria. Il nuovo mestiere, va detto, può anche essere redditizio. Il margine d’interesse forma il salario della paura che le banche versano all’ente istituzionalmente degno di fede. Un salasso che è anche un incentivo per tornare alla normalità. Ma finora questo incentivo non è stato sufficiente. In realtà, le banche centrali sono andate ben oltre diventando addirittura intestatarie di titoli di ogni genere. Li hanno ricevuti dalle banche vigilate sia come garanzia a fronte di finanziamenti a scadenze più o meno lunghe sia attraverso acquisti veri e propri. Nel primo caso, comune ai tre sistemi di banche centrali, il rischio si materializza solo in caso di fallimento della controparte: a quel punto il creditore escute la garanzia e ne misura il valore nel suo bilancio. La Bce accetta come garanzie solo titoli di assoluta qualità, ma le banche centrali nazionali che formano l’Eurosistema hanno allargato le maglie: vanno bene pure i titoli tripla B. La Fed e la Banca d’Inghilterra sono state fin dall’origine più permissive. Nel caso poi degli acquisti di crediti, obbligazioni e azioni, il rischio implicito è ormai diretto. Lo si vede soprattutto nella Fed. Tra commercial papers, finanziamenti a soggetti finanziari non vigilati come le investment banks, titoli spazzatura ereditati da Bear Stearns e gli altri che verranno dal programma di riacquisto di titoli tossici ancora in parte da attuare, la Federal Reserve si troverà sui libri rischi diretti per 4-500 miliardi e forse più contro mezzi propri per 40. E’ evidente che, ove perdesse il 10% dello scottante portafoglio, la Fed brucerebbe il capitale. Tanto non basta a ipotizzare pericoli di fallimento. Le banche centrali hanno gli Stati come azionisti diretti o indiretti, e dunque possono sempre farsi reintegrare il capitale. Tanto, però, basta a dire che, nella rincorsa obbligata al rischio-rendimento sostenuta a debito, la Fed sta assumendo il profilo di un hedge fund: un fondo speculativo speciale finanziato dal Tesoro che integra in grande stile gli insufficienti prestiti ottenuti dalle banche e che, a sua volta, si finanzia emettendo titoli di Stato. E’ quasi un contrappasso. L’osannata Fed di Alan Greenspan poté influenzare a lungo i governi repubblicani e democratici non solo perché la sua ideologia liberista si sposava con gli interessi di Wall Street e Wall Street insediava i suoi uomini al governo, ma anche perché la banca centrale non aveva bisogno di nulla. Sembrava poter risolvere i problemi con i propri mezzi o con mezzi di mercato, come accadde nel 2003 quando gli hedge funds aiutarono a risolvere le tensioni tra le banche e Fannie Mae e Freddie Mac. Oggi, quell’autorevolezza si rivela mera apparenza dietro la quale emerge la cattura del regolatore e del governo da parte dei regolati. I nuovi mestieri e lo stato dei conti della Fed – ma anche della Banca d’Inghilterra – restituiscono il primato alla politica. Ma se questa svolta sarà la premessa della liberazione del regolatore dall’influenza dei regolati ce lo dirà il presidente Obama.