Domenico Quirico, La Stampa 14/11/2008, 14 novembre 2008
Il lunghissimo muro che circonda la base del contingente della Nazioni Unite a Goma è interrotto da un largo squarcio, ricordo di una delle tante, troppo battaglie combattute per questa città
Il lunghissimo muro che circonda la base del contingente della Nazioni Unite a Goma è interrotto da un largo squarcio, ricordo di una delle tante, troppo battaglie combattute per questa città. I soldati indiani lo hanno chiuso con il filo spinato. Ogni mattina una moltitudine di bambini esce dalle sue baracche, sciama attraverso le immondizie di strade che nessuno si è mai disturbato ad accudire, e arriva da tutta la città per «guardare lo spettacolo». E’ uno spettacolo da ammirare davvero a bocca aperta, con gli occhi sgranati. Che meraviglie: tutto è bianco e immacolato, innanzitutto, i blindati, i trasporti truppe, i camion, le jeep appena uscite dalla fabbrica. I container stracolmi di «roba» si allineano come in parata. Sulla pista dell’aeroporto che affianca la base mastodontici cargo atterrano e ripartono in continuazione per rovesciare altro materiale; antenne gigantesche captano messaggi da tutto il mondo; sul fondo lunghe file di soldati passano con il vassoio per la colazione, altri giocano accanite partite di pallavolo, sulle torrette dietro montagne di sacchi di sabbia, sentinelle elegantissime vegliano sul traffico tumultuoso e puzzolente della strada. Bambini abituati a tutte le sofferenze, che hanno perduto il vezzo di piangere, spiano così le meraviglie dell’Occidente ricco, pietoso, umanitario. Poi c’è «l’uscita». Il portone azzurro fresco di vernice si spalanca e le autoblindo escono in perlustrazione urbana. I sikh con il turbante azzurro sembrano figurini, i mezzi si fanno largo pigramente nel caos di questa città che pochi anni fa sonnecchiava con la miseria dei suoi sedicimila abitanti e adesso agonizza sotto il peso di seicentomila senzatutto. I «turbanti blu» vanno a sistemarsi in centro e osservano il via vai. Vedono passare jeep nuove di zecca che scaricano davanti alle banche della via principale indaffarati uomini d’affari che cercano di salvare scarpe lucidissime dalla inzaccherature fetide della strada prima di varcare le soglie degli istituti di credito. Vanno a controllare i conti in banca che la guerra del Kivu continua a impinguare. Mentre centinaia di migliaia di rifugiati agonizzano nei campi ai bordi della città in attesa della carità internazionale, ci sono predatori congolesi destrissimi, usi ai maneggi e agli affari, che ingrassano, che lavorano perché la guerra non finisca mai e quei ricconi dell’Onu restino qui a farsi pelare. Impresa finora riuscita, infatti il conflitto galoppa con passi da bersagliere da 18 anni e le Nazioni Unite presidiano inutilmente la regione dal 1999. Questa è una guerra che è stata privatizzata, che si può capire leggendo l’ultimo libro di John Le Carré. Privatizzata dai pescecani che speculano sulle miniere e soprattutto da quelli che vivono con le forniture alle Nazioni Unite e agli eserciti in lotta. Il contingente di diciassettemila uomini, cinquemila nel Kivu, dispiegato dal Palazzo di Vetro costituisce la più grande industria e il più grande traffico del Congo. Il bilancio annuale per alimentare i soldati della pace supera un milione di dollari l’anno. A Goma, da quando le truppe ribelli hanno cominciato la loro avanzata fino alle porte della città, tutti quelli che possono, in piccolo o in grande, si sono lanciati nel business. Anche la derelitta municipalità cerca di afferrare le briciole: imponendo alle torme di giornalisti venuti a raccontare la nuova tragedia africana un permesso di attività fissato alla mostruosa cifra di 250 dollari. La corruzione che qui è endemica dilaga, una congrega di affamatori sbucati dai sottosuoli agguanta nuovi record. A un incrocio due poliziotti con un fiammante elmetto giallo adocchiano l’auto con la scritta «stampa», bloccano l’autista, gli sequestrano la patente. Nessuna infrazione al traffico, improbabile in una circolazione in cui l’unica regola è il caos. Vogliono soldi, «perché lavora con gli stranieri e quindi guadagna». I due, spiega l’autista rassegnato, in fondo sono dei poveracci. Perché il loro comandante esige ogni sera a fine turno a sua volta una tangente. E grossa. Non si può mancare un centesimo. Altrimenti li farà cacciare. Mentre il mondo si prepara a «fare qualcosa» per il Congo, ad aprire per l’ennesima volta il borsellino, bisogna riflettere su questo fallimento dell’Onu. Il massacro non ha ancora cifre apocalittiche, il colera che dilaga tra i campi, forse, può essere ancora tenuto sotto controllo, i ribelli non hanno ancora baionettato tutto, l’ideologia della sopraffazione è solo a metà opera. Si può ancora scongiurare un secondo Ruanda. Quando i soldati della pace rimasero inerti nei loro campi pieni di comfort, mentre davanti alle canne dei fucili scorreva il film del genocidio. Tra qualche mese potremmo essere costretti a leggere le confessioni di un altro generale Dellaire, un militare la cui parola non era accovacciata sotto la disciplina della divisa, che invano nel 1994 attese dal Palazzo di Vetro, silenzioso e reticente, l’ordine di agire. Goma è un posto del mondo in cui la gente è andata in strada per sfogare a colpi di pietre la rabbia contro i caschi blu che non li proteggono. Impossibile dare loro torto: finora la Monuc ha fatto solo scenografia, non ha sparato un colpo. Con i mezzi militari di cui dispone, blindati, elicotteri, può respingere i ribelli e tenere a freno le brutalità dell’esercito regolare. Invece ha assistito inerte alla fuga in massa di centinaia di migliaia di persone, a saccheggi e violenze commesse dalle due parti. Non c’è neanche l’alibi della regola di ingaggio, perché c’è e chiara: difendere i civili. Gli elicotteri sorvolano il popolo dei campi, una folla malmenata, affamata, violentata, decimata, assassinata, ma nessuno scorta i convogli con gli aiuti per gli sfollati nelle zone controllate dai ribelli, dove la gente scappata non ha nulla. A Goma oggi bisogna dare una risposta innanzitutto a una domanda: a che serve l’Onu in questa versione timida, cinematografica, reticente?