Lucio Villari, la Repubblica 13/11/2008, 13 novembre 2008
LUCIO VILLARI
Una parola fantasma è stata evocata e si aggira inquieta nel linguaggio politico e nei commenti preoccupati sull´attuale crisi finanziaria americana. C´è la indefinita, diffusa sensazione, tra la gente comune, che se non si riesce a dare corpo a questo fantasma, si rischia una grande depressione mondiale. Lo ha scritto esplicitamente in questi giorni il New York Times: «Il sistematico smantellamento di leggi che richiedevano le regole ha contribuito alla crisi attuale». La parola è, appunto, regole.
Gli economisti e gli uomini d´affari e di impresa, in caso di emergenza, ne parlano come di una verità ovvia. Sir Evelyn Rothschild, ma non è il solo, ha fatto ora la scoperta che nei comportamenti del mondo della finanza ci vorrebbe, ad esempio, l´etica. Gli uni e gli altri sono però, tranne qualche caso di coscienza infelice, interessati a non chiarire il senso di ciò cui alludono e sono più che mai preoccupati che i provvedimenti governativi di salvataggio e di intervento pubblico possano andare oltre il tempo necessario. In prospettiva, il pericolo vero sarebbe nel ritardato ritorno al libero mercato e nel rilancio di una «vecchia» idea di Stato interventista, che all´occorrenza sa nazionalizzare, pronto a occupare spazi incompatibili con la libertà economica.
Si intuisce comunque che le regole rinviano a qualcosa di positivo e di necessario a tutti («In un mercato senza regole - ha detto Tommaso Padoa Schioppa in una recente intervista a la Repubblica - nessuna istituzione finanziaria potrebbe resistere (...); e vanno bene in certi casi anche interventi straordinari dello Stato») ma, andando al concreto, non si riesce a leggere sui giornali e nelle dichiarazioni ufficiali una descrizione concettuale e teorica di esse, né vengono identificati codici precisi di comportamento. Non sono insomma prescrizioni organiche e definite, decaloghi cui si deve obbedienza, ma medicamenti di carattere straordinario (in «certi casi») e provvisorio. Infatti, fino alla crisi dei mutui si faceva della parola un uso discreto, timido, mai politico, prudentemente giornalistico. Alla fine, per i compiaciuti sostenitori ad oltranza del Mercato parlare di regole significava lambire il limite della bestemmia anche perché il promotore di esse non potrebbe che essere lo Stato. C´è voluto il presidente americano a rompere la minacciosa ellisse regole - Stato e a bestemmiare lasciando stupiti molti di loro. Si prenderà in pieno Congresso lo schiaffo, quanto mai comico, di bolscevico. Lo stesso tuttavia che negli anni Trenta fu appioppato a Roosevelt e che poi servì bene al maccartismo, alla deriva democratica dell´America negli anni Cinquanta e alla guerra fredda. Ma gli schiaffi non servono a molto.
Eppure, questa parola così semplice e così poco maneggevole è un eterno ritorno. stata sempre simmetrica delle crisi economiche essendo evidentemente non soltanto la prova della loro evitabilità - anche se la previsione delle crisi sia sempre ridicolizzata e non pare faccia parte della cultura del Mercato - ma soprattutto la loro medicina. Cento anni or sono (solo gli storici ricordano questo evento drammatico che si manifestò nel 1907 e che è certo tra le tante premesse economiche anche della prima guerra mondiale), sempre negli Stati Uniti esplose una crisi bancaria e finanziaria simile a quella ora in corso. L´alta finanza, Wall Street e le Borse, definite senza mezzi termini da esponenti della produzione e del pensiero economico «le bande nere» dell´economia, coinvolsero il sistema produttivo dell´Europa allora in espansione e che aveva fino a pochi anni prima finanziato gran parte del decollo industriale e delle infrastrutture statunitensi.
Anche l´Italia liberista, col bilancio in pareggio e la lira che faceva aggio sull´oro - eravamo nel decennio giolittiano - ebbe un grave contraccolpo. La tanto esaltata libera concorrenza internazionale si rivelava, secondo la nota metafora di un commentatore inglese, «una volpe libera in un pollaio aperto».
«Quanto prima la crisi - scriveva Vilfredo Pareto sulla Gazette de Lausanne - si estenderà anche alla produzione economica». Previsione esatta. L´autorevole giornale italiano L´Economista chiedeva perciò a gran voce un intervento istituzionale - dalla Banca d´Italia al ministro del Tesoro - che «sorvegli e regoli il mercato». La magica parola era stata pronunciata.
Venti anni dopo, punto e a capo. Siamo al 1929, l´anno del grande crollo del capitalismo che è ora costantemente confrontato con i fallimenti delle banche americane e con l´ondata minacciosa che giunge in Europa. Il confronto, sempre temuto, è storicamente legittimo e quindi anche la storia potrebbe servire agli americani per capire qualcosa dei fatti economici. Serve di più però quando la crisi esplode, altrimenti, come scrisse ironicamente Arthur Miller, presentando nel 1987 il suo dramma L´orologio americano, «non è buona educazione» ricordare agli americani la crisi del ´29. Per ridurre comunque all´essenziale l´elenco storico delle conseguenze del crollo di Wall Street dirò che ancora tre anni dopo il giovedì nero, nell´estate 1932 (era in svolgimento, come ora, la campagna presidenziale), i disoccupati erano 14 milioni e 400 mila, la produzione industriale era diminuita del 50 per cento con una punta massima dell´80 nell´industria pesante. Le 1475 società industriali e commerciali più importanti del paese, con un patrimonio complessivo di 27 milioni di dollari (di allora), accusavano un deficit di 97 milioni di dollari. superfluo elencare le vittime del collasso finanziario e bancario. Le banche fallite erano, alla vigilia dell´insediamento di Roosevelt, nel 1933, novemila. Molti banchieri si gettarono dalle finestre dei loro uffici.
Il presidente Bush e il segretario al Tesoro Henry Paulson, con il tempestivo intervento di 700 (o 850) miliardi di dollari, primo passo forse verso la nazionalizzazione di alcune banche, hanno impedito - ma il panico può scoppiare lo stesso - che succedessero le scene che un testimone dei giorni dell´ottobre 1929, il poeta Federico García Lorca, ha così raccontato: «Lo spettacolo di Wall Street era inenarrabile. Io sono stato tra la folla al momento del grande panico finanziario. Non potevo uscirne fuori. Gli uomini gridavano e discutevano come belve e le donne piangevano dappertutto. Quando uscii da quell´inferno in piena Sixth Avenue trovai la circolazione bloccata. Dal piano l6 dell´Hotel Astor un banchiere si era gettato sul selciato della via...».
Il presidente Roosevelt cercò di mettere fine a tutto questo con le regole contenute nelle leggi e negli istituti del New Deal sotto forma di codici del lavoro, di organismi governativi di controllo delle banche e della circolazione del denaro, rilancio programmato della produzione (alcuni americani ricordano ancora il marchio statale dell´aquila azzurra sui prodotti in vendita) e dei consumi popolari, strutture e piani (parola temibile per un liberista puro) per la ricostruzione e, ecco il punto, per la contemporanea riforma dell´economia di mercato. Nacque così dalle regole rooseveltiane e si diffuse nell´Europa capitalistica il prezioso Welfare State che dalla Tatcher e da Reagan in poi è stato, anche in Italia, tranquillamente smantellato. In America questa demolizione avvenne, bisogna dirlo, con il contributo del partito democratico e del presidente Clinton il quale nel 1999 ha abbattuto una legge che nel citato articolo del New York Times è definita «un pilastro del New Deal»: la Glass-Steagall Act del 1933 che separava le attività commerciali dalle speculazioni delle banche.
Grazie a Clinton si sono anche ridimensionati altre leggi e istituti pienamente efficienti della «regulation» di Roosevelt, quali la Securities Exchange Commission e la Commodity Exchange Act del 1936 che servivano a sorvegliare e a dare norme inderogabili alle banche. Dunque, dalla regulation si è arrivati a una gioiosa de-regulation che felicemente è giunta venti anni or sono, tra altri paesi europei, anche in Italia. La mancanza di regole e le privatizzazioni avrebbero dovuto appunto liberare nel nostro paese energie produttive. Forse l´intenzione era buona, ma come si è visto in questi ultimi anni, ha liberato, con il contributo dei governi di centro-sinistra e con lo slogan meno Stato e più mercato il capitale finanziario da necessari controlli.
Gli Stati Uniti sono dunque il grande paese dove si scatenano crisi economiche ma dove si trovano anche regole per guarirne le ferite. Per prevederle e prevenirle esistono la ricerca scientifica e la riflessione teorica, cioè «la Critica del capitalismo». una storia ormai secolare che ha visto impegnati, per non parlare di Taylor e del taylorismo, tecnici del management, sociologi dell´organizzazione, economisti come Veblen, Schumpeter, Galbraith, Samuelson, Baran, Sweezy, filosofi come Dewey, scrittori, drammaturghi, uomini di cinema da Chaplin a Woody Allen. Attualmente, in alcune università americane, da Stanford a Washington studiosi dell´organizzazione lavorano intorno al tema delle regole legandolo sia a sperimentazioni settoriali (ad esempio il funzionamento delle stesse università) sia a progetti teorici sull´equivalenza tra applicazione delle regole e evoluzione del sistema democratico. In una ricerca guidata da James G. March (che insegna da anni Scienza della politica a Stanford) è detto ad esempio: «Una volta istituite, le regole influenzano i processi politici. Le regole nei giochi politici guidano e limitano le azioni dei singoli, stabiliscono dei diversi diritti e responsabilità per i partecipanti, accrescono la coerenza di comportamenti simultanei in qualche modo dispersi e forniscono delle opportunità e degli ostacoli per l´azione strategica. Il risultato è un processo formato dalla coscienza politica collettiva derivata dalle esperienze passate e codificate dalle regole del gioco». Tesi molto chiare che March aveva elaborato già nel l989 e che confermerà in un volume scritto con Martin Schulz e Xueguang Zhou apparso nel 2000 e tradotto nel 2003 anche in italiano presso l´Università Bocconi con il titolo Per una teoria delle regole. Nascita, cambiamento e strutturazione delle regole. Vi si dice inoltre che «le regole forniscono delle difese procedurali in domini in cui è difficile instaurare delle difese sostanziali e la fiducia è problematica». Ma la potenzialità teorica e pragmatica delle regole apre ampi e prevedibili orizzonti politici, sociali ed economici. Secondo questa ricerca infatti «le regole sono il risultato delle negoziazioni tra i diversi interessi, sono contratti sociali».
Possono dunque essere un grande strumento per accordi negoziati tra interessi contrapposti. Così intese le regole sono infatti una svolta nella trasformazione sia della democrazia economica sia di quella politica. possibile immaginare che dalla attuale crisi economica i capitalisti e i politici che credono nella democrazia possano trarre una lezione richiamandosi anche ai valori morali e civili sottintesi nella visione così aperta e problematica delle regole?