Ivo Romano, La Stampa 12/11/2008, pagina 44, 12 novembre 2008
La Stampa, mercoledì 12 novembre Sette settimane. Una scadenza variabile, forse. Un paio di mesi scarsi, comunque
La Stampa, mercoledì 12 novembre Sette settimane. Una scadenza variabile, forse. Un paio di mesi scarsi, comunque. Una goccia nel mare dell’esistenza, poi sulla breve vita di Robert Muller, 28 anni, calerà il sipario e scorreranno i titoli di coda. Il tumore al cervello ha vinto: ha capovolto la clessidra e aspetta di portarselo via. Un avversario che non dà scampo, ti si piazza davanti e spara fendenti che neppure il più abile dei portieri riuscirebbe a respingere. Ma Robert ha deciso: vuol vivere fino in fondo, mai si farebbe trovare sconfitto, immobile in un letto, in attesa di essere sopraffatto dal subdolo rivale. No, lo sport come ragione di vita non è una colossale balla, se Robert su questa equazione baserà l’ultimo scorcio del suo tragitto terreno. Pattini ai piedi, guantoni alle mani, maschera a protezione del viso. E la solita divisa, quella dei Kolner Haie, gli squali di Colonia. Ginocchia piegate, sguardo fiero, petto in fuori. E la sua grossa sagoma a difendere almeno la porta della sua squadra, se non gli è stato possibile difendere se stesso dal destino che gli ha fatto lo sgambetto. Vuol tornare sul ghiaccio, prima di salutare il mondo. Come quella notte, nell’arena di Mannheim, la tana della sua squadra di allora, le Aquile, nel giorno dell’All Star Game e del suo ritorno in campo, col ghiaccio che quasi si sciolse per il calore che la gente gli trasmise. Mesi prima, nel novembre 2006, gli avevano diagnosticato il tumore. Ospedale, operazione, chemioterapia. Il calvario del malato. Poi il ritorno in campo, stavolta con i Kolner Haie, perché non sempre la gratitudine è di questo mondo e a Mannheim non lo ritenevano più all’altezza. Tornò migliore di prima, pure in nazionale, fino in Canada, per il Mondiale, lui che della Germania hockeistica è quasi un monumento, lui che è parso sempre un predestinato, fin da quando alle soglie dei vent’anni fu scelto per la Nhl dai Washington Capitals. Ma è come se la vita quel che ti dà in termini di talento se lo riprende con gli interessi. All’alba di questa stagione, un altro duro colpo: ancora quel tumore, ancora un’operazione. Tutto okay, si disse. Ora, il triste verdetto. Battaglia persa, speranze azzerate. La medicina si ritrae, anzi si sorprende: «La maggior parte dei pazienti non arriva a vivere un anno e solo il 3 per cento resta in vita fino a cinque», ha spiegato Wolfgang Wick, oncologo della clinica universitaria di Heidelberg. Robert vede la linea del traguardo, vicina, fin troppo. Non può spostarla più in là, non più. Ma vuole arrivarci correndo, a braccia levate al cielo, col sorriso stampato in volto. Ha dignità, coraggio, forza. Di aggettivi all’altezza neanche a parlarne, non se ne trovano. Non vuole vedere gli altri piangere, perché lui - giura - non piangerà: «Non ho dolori e mi sento bene, devo soltanto convivere con il tumore. Non mi resta che essere positivo, perché tanto la mia situazione non cambierebbe. Chiedo di essere trattato come tutti gli altri, non voglio essere compatito». E’ come un «dead man walking», ma altro che ultimo desiderio, lui s’è posto 3 obiettivi: comprare una casa per la moglie e i due figli, continuare a pensare positivo, tornare sul ghiaccio il più presto possibile. Ce la farà, a detta di tutti: «Si allena con un impegno incredibile. Lo vedo tutti i giorni ed è molto migliorato», dice il direttore sportivo del Kolner, Rodion Pauels. Per lui, l’incrollabile ammirazione di compagni e società. Mentre lo shock di un intero Paese s’è trasformato in affetto e stupore. Ancora 7 settimane, giorno più giorno meno. Poi la parabola della sua vita toccherà il punto di minimo assoluto. Prima, però, Robert Muller ha un altro appuntamento. Perché c’è modo e modo di vivere gli ultimi giorni, ci sono romanzi e pellicole che lo raccontano. Robert ha scelto di fare quel che ha fatto fin da bambino, quello che l’ha reso felice. Ivo Romano