Paolo Foschini, Corriere della Sera 12/11/2008, 12 novembre 2008
MILANO
morto ieri sera all’ospedale Valduce monsignor Alessandro Maggiolini, vescovo di Como fino al gennaio 2006. Aveva 77 anni ed era malato da tempo.
Scomodo vescovo-leghista per alcuni, coraggioso difensore dell’occidente cristiano per altri: non è mai stato un pastore accomodante, monsignor Maggiolini. Uno che ripeteva «l’ottimismo è la virtù degli imbecilli » e secondo cui «il nostro distintivo è il Credo, non il dialogo ».
Eppure, tra i tantissimi estimatori e i forse ancor più numerosi critici che ha avuto per una vita al suo seguito, neppure questi ultimi hanno mai potuto contestare a monsignor Alessandro Maggiolini di non essere un uomo schietto. Una settimana prima del Natale 2005, in una delle sue ultime omelie da vescovo, era riuscito a far piangere metà dei bambini della cattedrale di Como proclamando loro che «non è Babbo Natale, ma a portarvi i doni sono papà e mamma rintronati dalla pubblicità ». E con lo stesso tono diretto, due anni prima, aveva annunciato ai preti della sua diocesi la propria condanna: «Non amo i giri di parole, ho un tumore al polmone sinistro». «Ho paura della morte perché implica il dolore – diceva – e peggio ancora una domanda terribile: sono stato leale con me stesso?».
Ora, che il suo asserito leghismo fosse da lui stesso definito «una "fola" inventata da uomini senza fantasia» può anche essere un dato di fatto: «Non riuscirei mai ad essere leghista – ebbe a dire – se non altro perché ho il culto di una lingua italiana elegante». Nato nel ’31 a Bareggio, a venti chilometri da Milano, Maggiolini diventò sacerdote a 24 anni e proprio nel capoluogo ebbe la sua prima parrocchia prima di essere nominato vescovo di Carpi nell’83 e approdare infine alla cathedra di Como sei anni più tardi. E tuttavia – autore di saggi teologici, unico sacerdote italiano nella commissione redattrice del catechismo cattolico, e poi scrittore di libri, pubblicista, commentatore – di Maggiolini resta nella memoria soprattutto l’infinità di uscite ove la moderazione, per dir così, non era certo il tratto dominante: i gay «da curare», il «femminismo lercio», i Pacs «preludio ai matrimoni tra uomini e cavalli », il fastidio verso quelle che lui definiva «caricature di cristianesimo », la perplessità ai tempi di Cofferati su una «Chiesa che non condanna le bugie del sindacato», il «confronto con l’Islam» da portare avanti «senza violenza da nessuna parte » ma anche ribadendo che «i cattolici devono avere il cuore dolce e la testa dura, invece hanno spesso il cuore di pietra e la testa di cicca americana».
Due titoli di cui è stato autore, più volte riediti, bastano a riassumerne l’atteggiamento nei riguardi del mondo: Fine della nostra cristianità, Declino e speranza del cattolicesimo. Ritratto di seminari vuoti nei cui corridoi «si va ormai in monopattino ». «Quanto alla morte – diceva monsignor Maggiolini senza farne mistero – nel mio repertorio avrei anch’io molti pezzi di virtuosismo sull’ingresso in Paradiso, l’immortalità, la comunione dei santi eccetera. Quasi che il morire fosse da desiderare. Storie. Neppure l’anelito incontenibile di guardare negli occhi Gesù può nascondere il terrore e cancellare la paura. Quando lo guarderò negli occhi, Gesù, sarò quello che sono o quello che ho creduto di essere?».
PAOLO FOSCHINI PER IL CORRIERE DELLA SERA DI MERCOLEDì 12 NOVEMBRE 2008