Domenico Quirico, La Stampa 12/11/2008, 12 novembre 2008
Che strane, le guerre africane. Non ci sono fronti, non ci sono retrovie, non ci sono soprattutto battaglie
Che strane, le guerre africane. Non ci sono fronti, non ci sono retrovie, non ci sono soprattutto battaglie. In mezzo secolo di sanguinosissima indipendenza impossibile citare qualche Canne, Waterloo o Verdun. L’Africa le guerre le nasconde, le inghiotte nelle foreste e nelle savane. Se è vero che la guerra perfetta è quella che non si vede, queste sono guerre perfette. Quella del Kivu, per esempio. I ribelli del generale Nkunda sono non più di cinquemila, non hanno armi pesanti, marciano, meglio, corrono attraverso le foreste. E hanno inghiottito in poche settimane una regione grande come metà della Francia, le sue miniere, le sue cittadine svuotate dalla fuga della gente. L’esercito congolese schiera venticinquemila uomini, elicotteri, cannoni. Eppure fugge, abbandonando il materiale e la faccia. Ora è rinserrato dentro Goma, la capitale del distretto. Sembra inspiegabile, qualsiasi stratega scuoterebbe perplesso la testa chiedendosi perché. Ebbene: i guerriglieri hanno con sé l’arma più formidabile delle guerre africane, l’unica che conta: il terrore. Fanno paura, tanta paura. Perché sono tutsi, i prussiani dell’Africa. I piccoli soldati congolesi sanno che hanno di fronte i guerrieri del Grande Massacro nel ’96, quando passarono il confine per regolare i conti con i fratelli-nemici hutu fuggiti in Congo. Hanno ascoltato, i soldati del presidente Kabila, i racconti di come lavorarono allora di machete nelle foreste, e come portino il mitra come noi portiamo gli occhiali: naturalmente. E’ per questo che a combatterli hanno lasciato dietro di sé i guerrieri maj maj: sono milizie locali fitte di sedicenti stregoni, dispongono più di lance che di fucili, ma anche loro mettono paura, si portano addosso misteriose credenze animiste, solforose aure di immortalità. E’ l’Africa: quando non funziona la modernità, sono sempre pronte la magia, le streghe, i demoni della notte. Ci pensino loro. Anche l’uomo che li guida, Laurent Nkunda, è un mistero, spaventa: laureato in psicologia, diventato guerrigliero per passione etnica, predicatore, narcisista e arrogante, Forse vuole davvero solo difendere i suoi tutsi congolesi, forse vuole le miniere. Forse, con le vittorie, ha accresciuto le sue ambizioni; ora sogna di regnare sul Kivu. Forse di più: marciare su Kinshasa, duemila chilometri di foreste e di fiumi, la capitale dei corrotti, diventare presidente. Si crede ormai l’unico in diritto di essere megalomane. Per questo è in agguato felino, stringe con un cappio di terrore Goma. E’ persuaso che il tempo giochi per lui, che prima o poi i soldati dell’Onu se ne andranno. Come i francesi se ne sono andati dal Ruanda. E allora verrà il suo momento. Nkunda non è un prodotto del colonialismo, semmai è una creatura dei tempi del tiepido e vile umanitarismo. La sua astuzia feroce, il suo guerreggiare usando i profughi li abbiamo suggeriti noi. I soldati congolesi confessano neppure a mezza voce: «Perché dovremmo batterci per degli ufficiali che non vengono in prima linea e si mettono i soldi in tasca?». Già i soldi. Tutti conoscono a Goma la storia del «colonnello Sam», un generale che dirige il traffico di minerali nella regione del Nord Kivu. E «Tango four»? E’ un altro generale, capo di stato maggiore a Kindu: ha una compagnia aerea e una squadra di calcio. L’esercito di Kabila, che dovrebbe difendere Goma e al quale l’Europa ha delegato, per non impicciarsi, il compito di difendere un milione di profughi, è stato privatizzato. Ci sono almeno 150 mila soldati fantasma, che esistono solo nei libri paga per i prelevamenti (degli ufficiali). Per questo i soldati si abbandonano a furiosi saccheggi durante la ritirata: come formiche che spolpano un osso, le ondate successive delle soldataglie in fuga hanno ripulito il Paese di tutto quello che si poteva svellere e portar via. Nella veranda dell’albergo Vip due di questi strateghi festeggiano con un civile in sfacciata uniforme da pescecane, da profittatore. Si brinda con vino sudafricano. Non alle vittorie, certo. Ai buoni affari della guerra. E questa è già una prima spiegazione del perché in Congo orientale si combatta da 18 anni. I loro soldati che, a guardarli, ti fanno venire il languore, salutano alla periferia di Goma, fradici di pioggia. Un sottufficiale stizzito come una suocera, cui si chiedono notizie sul «fronte» che è a un chilometro, abbaia: «Ma che ne sappiamo noi?». Un bambino in divisa gioca con una chitarra sfondata. La terra di nessuno accoglie con il vuoto; la strada verso Kibumba, prima affollatissima, diventa un solco desolato. Ai lati i detriti di un collasso militare, proiettili scarponi divise cassette di munizioni abbandonate. La boscaglia ai due lati del nastro di asfalto slabbrato è come triturata dal passaggio di una mandria gigantesca. L’hanno ridotta così decine di migliaia di piedi nudi, quelli della gente in fuga verso Goma. Questi guerriglieri sono assai discreti, quasi invisibili. Al primo posto di blocco un gruppo di miliziani del generale Nkunda ha l’aria annoiata. Sono gentili, i terribili soldati di «Terminator». Nella guerra di propaganda, di fandonie, la guerra della saliva, i congolesi hanno preso qualche punto di vantaggio: li accusano di massacri di civili. Ma questi templari dell’annientamento non sono soli. Anche i regolari congolesi e i loro alleati maj maj hanno preso le loro vendette, ma hanno ricevuto gli ordini di apparire un esercito educato e non una banda di assassini: «Qui è tutto calmo, la zona è sicura». E Goma, quando la prenderete? Con un bel sorriso furbo il comandante risponde: «E’ un segreto militare». Si esce dalla strada principale e si sale su un tratturo di lava ispida verso un villaggio al confine. I soldati di Nkunda sono ovunque, spuntano dalla foresta, occhieggiano dalle case. All’ingresso del villaggio l’Africa eterna, tristemente immutabile, ti viene incontro: uno sbarramento, un uomo lo presidia incispito come Caronte. Qui si paga la tassa, annuncia. Ma quale tassa? «Il pedaggio stradale per i trasporti di merce». Ma nessun camion si arrampicherà mai fino qui, neppure in tempi pacifici. E infatti pagano i chukudu, i tricicli preistorici su cui la gente carica anche trecento chili di merce e la moglie e i bambini, i poveracci che vengono a vendere le carote e le cipolle al mercato. Ma a chi si paga? Ai ribelli? Al governo? La risposta vale un trattato di filosofia politica. «Al governo che c’è al momento» risponde l’esattore. Sfidando la missione navale europea che pattuglia le coste, i pirati somali hanno sequestrato un altro cargo al largo del golfo di Aden. I bucanieri hanno preso di mira un’unità navale che batte bandiera filippina, la Stolt Strength, gestita da uno spedizioniere panamense. A bordo 23 uomini di equipaggio, tutti filippini. Il sequestro del cargo, che trasporta prodotti chimici, è avvenuto lunedì pomeriggio: armati fino ai denti, con armi semi-automatiche e lanciagranate, i pirati hanno assaltato la nave diretta in un Paese asiatico. Nel corso dell’ultimo anno sono state prese d’assalto 83 imbarcazioni nelle acque infestate dai pirati del Corno d’Africa; almeno una decina rimangono nelle loro mani, con almeno 200 uomini d’equipaggio. Il golfo di Aden e le acque che bagnano le coste della Nigeria sono considerate tra le più pericolose al mondo, ormai più insicure dello stretto di Malacca, in Indonesia. I ministri della Difesa dell’Ue hanno dato lunedì il via libera alla missione navale europea per «dissuadere, prevenire e reprimere» la pirateria al largo della Somalia.