Michelangelo in tavola, Antonio Paolucci, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2008, 9 novembre 2008
Michelangelo in tavola, Antonio Paolucci, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2008 - Per intendere il dipinto Odescalchi, opera autografa di Caravaggio databile dal 1600 al 1601, unica tavola superstite del maestro, bisogna prima leggersi quel passo degli Atti degli Apostoli dove si parla della conversione del giudeo Saulo, persecutore dei cristiani
Michelangelo in tavola, Antonio Paolucci, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2008 - Per intendere il dipinto Odescalchi, opera autografa di Caravaggio databile dal 1600 al 1601, unica tavola superstite del maestro, bisogna prima leggersi quel passo degli Atti degli Apostoli dove si parla della conversione del giudeo Saulo, persecutore dei cristiani. «Ora, mentre nel suo cammino si trovava già vicino a Damasco, all’improvviso rifulse intorno a lui una luce dal cielo. Caduto a terra udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo perché mi perseguiti? Io sono, disse, colui che tu perseguiti. Ma alzati, entra in città e ti sarà detto cosa devi fare. Gli uomini che viaggiavano con lui si fermarono attoniti: udivano la voce ma non vedevano nessuno. Saulo si alzò da terra, e sebbene i suoi occhi fossero aperti, non vedeva niente; sicché dovettero prenderlo per mano e lo condussero a Damasco, ove, per tre giorni rimase senza mangiare né bere». (Atti 9,3-8) Rileggere la pagina neotestamentaria è, a mio giudizio, il modo migliore per avere ragione della difficoltà, per non dire dello sconcerto, con cui la critica ha spesso accolto la data di esecuzione del dipinto; data certificata dai documenti. Perché le carte parlano chiaro, su questo non c’è dubbio. Il dipinto, oggi di proprietà Odescalchi, fu commissionato da Tiberio Cerasi per la sua cappella in Santa Maria del Popolo il 24 settembre dell’anno 1600. ragionevole credere che Caravaggio ci abbia lavorato fra gli ultimi mesi di quell’anno e i primi dell’anno successivo, anche perché il saldo era previsto per il maggio del 1601. In seguito – non per un rifiuto, come scrisse Baglione (1649), ma per un nuovo accordo, vantaggioso per entrambe le parti, intervenuto fra gli eredi Cerasi e l’artista’, le due tavole, una con la Conversione di Saulo (questa, di proprietà Odescalchi) e l’altra (perduta) con la Crocifissione di san Pietro, furono sostituite nella stessa cappella con le versioni in tela che tutti conosciamo. Come ho detto, una parte consistente e autorevole della critica moderna (da Argan a Longhi) ha trovato assai difficile superare l’apparente distanza stilistica che divide la Conversione Odescalchi da quella attualmente visibile in Santa Maria del Popolo. Come è possibile, ci si è chiesto e ci si continua a chiedere, che siano praticamente contemporanee la versione Odescalchi (concitata, tumultuosa, ipermanierista, "lombarda" nel senso di Antonio Campi e Camillo Procaccino) e l’altra, immediatamente successiva, al confronto così semplice, chiusa e dunque tanto più "naturale"? Per giustificare le differenze bisogna rileggersi con qualche attenzione il passo degli Atti degli Apostoli che ho prima riprodotto e allora si riconoscerà che il massimo di adesione culturale e spirituale al testo sacro lo troviamo nella prima versione della Conversione, non nella seconda. Luca, l’autore degli Atti, è uno sceneggiatore di grande talento. Nel testo, come in una sequenza filmica, l’episodio della conversione sulla via di Damasco si gioca su tre fattori scenici di straordinaria efficacia: la luce subitanea che scende dal cielo come un fulmine, lo sgomento e il tumulto degli astanti che «udivano la voce ma non vedevano nessuno», la cecità di Saulo che è caduto a terra, urla e si copre il volto con le mani. Il quadro di Odescalchi è la traduzione letterale dell’episodio descritto da Luca, così come lo è l’affresco di Michelangelo (che certo Caravaggio conosceva) nella cappella Paolina in Vaticano. Anche lì – sia pure nella vasta desolazione, nei toni di polvere e di cenere che sono tipici del Buonarrotti in questa fase drammatica del suo stile – i protagonisti della scena sono la luce subitanea,lo sgomento e il tumulto degli astanti, la cecità di Saulo caduto. A noi moderni piace l’idea di Caravaggio "pittore maledetto", genialmente trasgressivo, insofferente delle regole, alfiere di tutte le rivoluzioni. Ci piace immaginarlo come lo descrive Karel van Mander nel famoso passo del 1603: «A Roma c’è un certo Michel Angelo da Caravaggio che fa cose meravigliose eglièunmistodigranoedipula; infatti non si consacra di continuo all’ozio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare». Spesso dimentichiamo tuttavia che questo cattivo soggetto, irascibile e violento, frequentatore di pessime compagnie, spesso coinvolto in storie da galera, era un buon cristiano. Lo era, come a tutti i suoi giorni, nel senso della devozione formale, ma lo era anche’ io credo – in quello sostanziale della Fede e della Speranza. Quando dipingeva la caduta di Saulo sulla via di Damasco (non senza aver prima letto e meditato il passo di Luca) egli sapeva, da cristiano, che la conversione (quella dell’apostolo ma anche la sua, di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, conversione sempre cercata e sempre contraddetta come accade a ogni credente) è una cosa terribilmente seria. Quando succede (e ogni cristiano deve sperare che succeda a se stesso e agli altri), la conversione comporta turbamento del cuore, tumulto dei sentimenti e dei pensieri, accecamento della precedente visionedelmondo.Questa sua cristiana idea della conversione, intesa come fatto altamente drammatico, Caravaggio l’ha messa in figura nella pala oggi di proprietà Odescalchi. E lo ha fatto utilizzando la presa diretta sul Vero visibile (armi balenanti, schiuma alla bocca del cavallo imbizzarrito, strisce rosso violacee di un tragico tramonto sullo sfondo), ma anche gli artifici che gli venivano dalla tradizione manierista, soprattutto lombarda. Perché di quel tipo di drammatizzazione formale aveva bisogno. Nella seconda versione, praticamente contemporanea, Caravaggio è – se mi è consentita la semplificazione brutale – più pittore e meno "cristiano". Nel senso che a catturare la sua attenzione è ora soprattutto il problema luministico-compositivo. Come rappresentare la mole incombente del tranquillo cavallone che (studiato dal vero in una stalla romana) finisce con il diventare il vero protagonista della scena. Come distribuire la luce eccetera. Mancano, nella seconda versione, lo sgomento e il tumulto degli astanti. L’accecamento non è più significato dalle mani portate a coprire il volto. L’adesione al testo di Luca non è più letterale. Insomma, le due versioni della caduta di san Paolo riflettono due atteggiamenti diversi del pittore: uno più "religioso" o almeno più sensibile alle motivazioni spirituali, l’altro più tecnico-professionale. Entrambi hanno condotto a risultati artistici altissimi ma entrambi si possono benissimo spiegare, nella stessa persona, negli stessi mesi.