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 2008  novembre 07 Venerdì calendario

Senza forti investimenti, l’offerta di petrolio non terrà il passo della domanda già nel 2015. Il Sole-24 Ore, venerdì 7 ottobre Ieri il prezzo del petrolio – o, più esattamente, il future sul Wti – è sceso ulteriormente a quota 60,65 dollari, ai livelli di un anno e mezzo fa, in gran parte per i soliti timori di un rallentamento dell’economia planetaria

Senza forti investimenti, l’offerta di petrolio non terrà il passo della domanda già nel 2015. Il Sole-24 Ore, venerdì 7 ottobre Ieri il prezzo del petrolio – o, più esattamente, il future sul Wti – è sceso ulteriormente a quota 60,65 dollari, ai livelli di un anno e mezzo fa, in gran parte per i soliti timori di un rallentamento dell’economia planetaria. I 147 dollari a barile segnati lo scorso luglio paiono inverosimili. Quasi un’allucinazione di massa. Eppure, a ben vedere, torneranno. «Il sistema energetico mondiale è arrivato a un punto critico», taglia corto il World Energy Outlook 2008 che sarà presentato mercoledì prossimo a Londra dall’Aie, l’Agenzia internazionale per l’energia. «Le attuali tendenze dell’offerta e dei consumi sono palesemente insostenibili: dal punto di vista ambientale, economico e sociale». Fino al punto che l’agenzia parigina, fatta nascere dall’Ocse all’indomani del primo shock petrolifero proprio per evitare nuove interruzioni alle forniture di idrocarburi, sostiene che – da qui al 2015 – sarà possibile andare incontro a spiacevoli sorprese, come la sporadica interruzione delle forniture. In realtà, l’Aie esclude che le risorse di petrolio e di gas naturale siano prossime all’esaurimento. «La dotazione mondiale di petrolio – si legge nel rapporto – è sufficiente a sostenere il previsto aumento della produzione da qui al 2030», che la stessa Aie stima in 106 milioni di barili il giorno, contro gli 84 dell’anno scorso. Da qui ad allora, però lo scenario sarà radicalmente cambiato. Anche se il picco della produzione mondiale «non verrà raggiunto prima del 2030, la produzione ha già toccato il massimo livello nella maggior parte dei Paesi non-Opec», dagli Usa alla Norvegia. Come risultato, gli equilibri del business petrolifero «cambieranno in modo radicale, con le compagnie nazionali destinate a giocare un ruolo sempre più dominante» e con l’Opec che salirà dall’attuale 44% fino a quota 51. Quando si parla di compagnie nazionali s’intende quelle in mano agli Stati (come Iran, Arabia Saudita o Venezuela) in contrapposizione a quelle internazionali (come Exxon, Bp o Shell), il cui peso specifico è destinato a declinare ulteriormente. In declino, come dice l’Aie, ci sono gran parte dei pozzi "occidentali". Ma non solo loro. Il World Energy Outlook 2008 ha preso in esame per la prima volta 800 diversi giacimenti, cercando di stimare il tasso di declino dei pozzi petroliferi. La risposta: una volta raggiunto il massimo, l’output scende mediamente del 5,1% all’anno. Ma gli esperti Aie hanno osservato anche che il declino naturale dei pozzi, ovvero non tenendo conto degli investimenti che vengono fatti per la manutenzione, è ben più alto: il 9 per cento. L’implicazione è tanto semplice quanto sinistra: ogni anno sarà necessario investire massicciamente per ottenere un milione di barili al giorno in più (l’equivalente della produzione algerina) soltanto per compensare questa accelerazione nei tassi di declino. E per aumentare la produzione, al fine di tenere il passo con la domanda? Tenendo conto delle riduzioni imposte dalla geologia e dell’accresciuta sete d’energia da parte di un mondo sempre più popolato, l’Aie stima che «entro il 2030 dovremo trovare circa 64 milioni di barili al giorno in più, quasi l’attuale produzione di sei Arabie Saudite». E siccome la produzione di petrolio "convenzionale" (greggio e gas naturale liquefatto) si prevede che crescerà solo di 5 milioni di barili al giorno, ci sarà da investire un bel po’. L’Agenzia stima circa 350 miliardi all’anno, per vent’anni. Come si diceva, c’è da investire per evitare che il declino naturale si accentui. Ma c’è da investire anche per trovare nuovi giacimenti, perlopiù fuori dall’area Ocse. Investire per sviluppare le risorse petrolifere non convenzionali, come le sabbie bituminose del Canada o il petrolio ultra-pesante dell’Orinoco venezuelano. Investire per sviluppare la cosiddetta Eor, enhanced oil recovery, la tecnologia per spremere i pozzi fino a (quasi) l’ultima goccia. «Già entro il 2015 – si legge nel rapporto – ci sarà bisogno di altri 30 milioni di barili al giorno. E c’è il serio rischio che la scarsità d’investimenti porterà, già prima d’allora, a un supply crunch», a un’interruzione dell’offerta. O, se preferite, all’incapacità del mercato di soddisfare la domanda di petrolio. «In poche parole – sostengono all’Agenzia parigina guidata da Nobuo Tanaka – c’è bisogno di niente meno che una rivoluzione energetica. Il petrolio resterà la nostra sorgente vitale di energia, anche assumendo il più ottimistico sviluppo delle sorgenti alternative».  soltanto curioso che, dopo tante pagine spese a descrivere una situazione se non pericolosa, quantomeno incerta, le proiezioni dell’Aie parlino di prezzi medi al barile di «100 dollari nel periodo da qui al 2015», e «oltre 120 dollari nel 2030, 200 ai valori nominali». La scorsa estate, al Nymex, giravano contratti future a 200 dollari, consegna a dicembre. Sarà anche stata un’allucinazione collettiva. Ma trovare altri 30 milioni di barili al giorno entro sette anni sarà un incubo. E, assai probabilmente, un incubo a caro prezzo. Marco Magrini