Wall Street Journal, 10 Novembre 2008, 10 novembre 2008
Il giorno in cui il capo della Federal reserve, Ben Bernanke, ne ebbe abbastanza fu il 17 settembre
Il giorno in cui il capo della Federal reserve, Ben Bernanke, ne ebbe abbastanza fu il 17 settembre. Lehman era collassata e Aig era stata praticamente nazionalizzata con 85 miliardi di dollari messi dalla Fed. Gli investitori fuggivano dai mercati, le borse annaspavano, le azioni andavano in altalena e all’orizzonte già si intravedevano nuovi fallimenti bancari. Quel giorno Bernanke chiamò il segretario del Tesoro Henry Paulson per parlargli senza mezzi termini. La Fed si era esposta fino al suo limite e non poteva fare di più, spiegò Bernanke. Nonostanze si fosse rifiutato per mesi, per Paulson era il momento di andare al Congresso a chiedere fondi per potere operare un salvataggio più ampio. Il segretario del Tesoro non disse ”sì” subito. Ci pensò e acconsentì il giorno dopo. Per quanto in pubblico Bernanke e Paulson dessero l’idea di marciare uniti, dietro le quinte il governatore e il segretario si scontravano spesso: su come gestire il caso Lehman Brothers, su come rapportarsi con il Congresso, sui limiti operativi della Banca centrale. Quando uno dei due si sentiva frenato dai propri limiti di legge, spingeva l’altro ad agire in maniera più aggressiva. L’approccio che il governo americano ha tenuto di fronte alla crisi è il prodotto delle loro differenze. La Fed e il Tesoro hanno stili operativi che rispecchiano il carattere dei loro boss. Dentro alla Banca centrale ci sono dibattiti che sembrano seminari accademici, dove Bernanke modera le discussioni ascoltando le diverse opinioni. Al Tesoro invece Paulson è il generale. Ascolta le truppe, prende decisioni rapide, controlla dopo poche ore a che punto è l’esecuzione di una sua richiesta. Il 9 settembre, il giorno dopo il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, Lehman era sull’orlo del fallimento. C’erano diversi potenziali acquirenti, che per agire aspettavano l’aiuto del governo, così come era arrivato, in febbraio, nell’affaire Bear Stearns. Paulson, inamovibile, rispondeva che non ci sarebbero stati soldi pubblici. Il giorno dopo chiamò Bernanke e Timothy Geithner – il presidente della Fed di New York, in prima fila nella gestione della crisi – per dire loro che non avrebbe collaborato in nessun modo al salvataggio di Lehman con i soldi della Fed. Geithner non era d’accordo. Abituato dal suo maestro Robert Rubin, titolare del Tesoro nell’era Clinton, alla regola aurea di ”tenersi sempre aperte diverse opzioni”, il banchiere constatava che il Tesoro stava violando quella legge. E venerdì 12 settembre, ai vari capi delle finanziarie che lo chiamavano, Geithner rispose che non c’era la volontà politica di un salvataggio. La strategia di Paulson era quella di costringere qualche grosso nome di Wall Street a salvare Lheman senza soldi pubblici. Ma gli asset della banca d’affari rischiavano svalutazioni anche da 30 miliardi di dollari. Barclays e Bank of America l’avrebbero anche rilevata, se solo la Fed si fosse accollata un po’ di quella spazzatura. Cosa che Bernanke non poteva fare, dato che il suo ruolo era limitato a concedere presititi di emergenza in cambio di titoli sani. Finì che Bank of America si prese invece Merril Lynch, mentre Barclays non si mosse. Per affrontare i mercati lunedì, Lehman aveva bisogno di una grossa garanzia sul suo debito. Paulson e Bernanke si trovarono senza opzioni. Entrambi capirono che il mercato si preparava a un forte choc, bisognava arginare la tempesta imminente. Gli uomini della Fed e del Tesoro, riuniti negli uffici di Geithner, studiarono la possibilità di proporre un piano per comprare gli asset cattivi delle istituzioni finanziarie e iniettare nuovo capitale nelle banche. Paulson spiegò che non si sentiva in grado di persuadere il Congresso ad approvare un piano di spesa da miliardi di dollari di denaro pubblico almeno finché la crisi non si fosse aggravata. Col fallimento di Lehman, la crisi si stava appunto per aggravare. ”Voglio una proposta subito” intimò Paulson al suo staff la notte di domenica 14 settembre. Bernanke convocò due dei suoi più stretti collaboratori, il suo vice Donald Kohn (veterano della Fed) e Kevin Warsh, che era il ponte tra la banca centrale e Wall Street. Geithner partecipò alla riunione dal telefono. I mercati dei prestiti a breve termine stavano per bloccarsi. I problemi richiedevano qualcosa di più di quello che la Fed poteva fare: offrire prestiti di emergenza a istituzioni solide in tempi difficili. La banca centrale non era pensata per aiutare le aziende che fallivano, erano il Congresso e il Tesoro a doverlo fare. E non poteva comprare asset, nemmeno in tempi di emergenza. Nonostante dal Tesoro dicessero a Bernanke che la Fed poteva rilevare quei titoli spazzatura, anche senza il via libera del Congresso. Paulson e Bernanke ne avevano discusso per settimane. Paulson insisteva per aggirare il Congresso. Chiedere ai legislatori di potere acquistare centinaia di miliardi di dollari di asset dalle banche avrebbe potuto spingere nel panico i mercati e fiondare la nazione in recessione. Il Congresso avrebbe potuto peggiorare la situazione rifiutando una richiesta della Fed. Bernanke e i suoi uomini si misero a premere su Paulson perché andasse a parlare ai deputati. Il governatore promise al segretario che lo avrebbe sostenuto in quella che sarebbe stata di certo una dura battaglia politica. Paulson non accettò subito, temendo ancora che il Congresso avrebbe rifiutato il piano. Il segretario si decise la mattina dopo, e disse a Bernanke che quel pomeriggio sarebbe andato al congresso per chiedere soldi pubblici. Un piano anti-crisi era già quasi pronto, ci stavano lavorando dalla fine del 2007 due funzionari del Tesoro, Neel Kashkari, ex Goldman Sachs, e Phillip Swagel, che monitorava la politica monetaria. Le opzioni possibili erano tre: acquistare gli asset pericolanti dalle istituzioni finanziarie, entrare nell’azionariato delle banche, garantire i mutui. All’interno dell’amministrazione Bush lo definivano un – quel piano – rompere il vetro”. Non si aspettavano di doverlo usare. Paulson pensava che se le banche, liberate dalla spazzatura, avrebbero potuto tornare a fare prestiti. Non gli piaceva l’alternativa, l’idea di iniettare capitale nell’azionariato degli istituti. Perché il governo avrebbe dovuto allora scegliere vincitori e vinti, e le banche avrebbero magari trattenuto i soldi invece di usarli. In aprile Paulson aveva ridotto a una sola le sue opzioni: comprare gli asset. Bernanke era d’accordo, ma riteneva che potesse funzionare anche l’investimento diretto. Attorno alla mezzanotte del 20 settembre, la squadra del Tesoro mandò via e-mail una proposta legislativa di 3 pagine a Capital Hill, chiedendo 700 miliardi per comprare asset dalle istituzioni finanziarie. Paulson voleva la flessibilità necessaria a usare i soldi come meglio avrebbe creduto. E Bernanke sottolineò, nella sua relazione al Congresso, proprio che il Tesoro avrebbe dovuto avere la flessibilità per investire direttamente nelle banche e , se necessario, cambiare tattica strada facendo. Il Congresso respinse il piano pochi giorni dopo, per la contrarietà di molti repubblicani ma anche di molti economisti, che si chiedevano se sarebbe stato il modo migliore di gestire la crisi e come avrebbe funzionato. Nella confusione si perse tempo prezioso. Tra il 18 settmebre (quando Bernanke e Paulson andarono al Congresso) e il 3 ottobre, quando il piano fu approvato, Wall Street bruciò 1.500 miliardi di capitalizzazione. Nel frattempo al Tesoro erano preoccupati per le intenzioni di alcuni democratici, che volevano affidare un ruolo di primo piano nel programma di salvataggio per Shiela Bair, capo della Federal Deposit Insurance Corp., l’istituzione che assicura i depositi di quasi 8.500 banche americane. Volevano dare alla Bair il compito di gestire alcuni degli asset delle banche. Per il Tesoro sarebbe stato un conflitto di interessi, e riuscirono a impedirlo. Paulson e Bernanke pretendevano che la Fdic si muovesse su un altro fronte: orchestrare il salvataggio Wachovia attraverso una fusione con Citigroup. La Bair non voleva perché significava esporsi a perdite potenziali di Wachovia per centinaia di miliardi di dollari. A salavare Wachovia ci pensò Wells Fargo, che fece la sua offerta senza chiedere aiuti di Stato. Poco più che una settimana dopo, a seguito dell’approvazione del piano europeo anti-crisi che garantiva un enorme sostegno ai debiti delle banche, Paulson pensò che le banche americane sarebbero state in svantaggio senza una garanzia simile. L’8 ottobre, nell’ufficio del segretario del Tesoro, Paulson e Bernanke chiesero alla Bair un piano di garanzia totale per i debiti delle banche. Anche Geithner insistette perché si allargassero le garanzie su quei debiti. La Bair rispose che non sapeva se avrebbe potuto farlo e se ne andò senza promettere niente. Nei giorni seguenti scrisse al segretario e al governatore una controproposta: invece della garanzia sul 100% dei debiti, ne propose una più ridotta, solo su alcuni debiti per il 90% del loro valore. Bernanke e Paulson risposero che non avrebbe funzionato, ma acconsentirono. La Fdic, spiegherà poi la Bair, era ”l’unico vero meccanismo legale per proteggere il debito delle banche”.