di Orazio Carabini, Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2008, 9 novembre 2008
La sfortuna di chiamarsi Brambilla e non Zaleski di Orazio Carabini La crisi finanziaria ha fatto vacillare molte certezze: dalla solidità dei grandi gruppi bancari internazionali alla capacità dei banchieri di prevedere gli eventi, fino alla tempestività delle autorità di sorveglianza nel prevenire gli scompensi
La sfortuna di chiamarsi Brambilla e non Zaleski di Orazio Carabini La crisi finanziaria ha fatto vacillare molte certezze: dalla solidità dei grandi gruppi bancari internazionali alla capacità dei banchieri di prevedere gli eventi, fino alla tempestività delle autorità di sorveglianza nel prevenire gli scompensi. Una certezza si è invece rivelata incrollabile, almeno in Italia: il sistema del «mutuo soccorso» sul quale si regge l’assetto di controllo dei maggiori gruppi, soprattutto finanziari, non tradisce mai. La premurosa cura con cui le grandi banche si sono precipitate ad assistere Romain Zaleski ne è la conferma. Il finanziere francese è uno dei perni su cui si reggono gli equilibri di potere del sistema italiano. Centrato su intrecci e incroci che implicano complessi obblighi fiduciari. Zaleski, che formalmente opera in proprio, è l’uomo di fiducia del presidente del comitato di sorveglianza di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli. Possiede un portafoglio di partecipazioni del valore di oltre 5 miliardi di euro (oltre a 1 miliardo di partecipazioni in società non quotate) che comprende Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Generali, Ubi Banca, A2A, Edison, Mittel, Cattolica, Bpm, Mps e anche Telecom Italia ( almeno fino a qualche tempo fa). A fronte di queste partecipazioni ha debiti per 6,3 miliardi. Con il crollo delle quotazioni di Borsa, le banche, che hanno in pegno le azioni di Zaleski, hanno chiesto un rientro dei debiti o un reintegro delle garanzie. Ma attenzione: le banche stanno per scindere il loro destino. Quelle estere, Royal Bank of Scotland e Bnp Paribas, si faranno da parte recuperando 1,6 miliardi. E chi glieli darà? Le banche italiane che rifinanziano Zaleski ma lo commissariano con il navigato banchiere Pierfrancesco Saviotti e si candidano a gestirne un ridimensionamento una volta che il mercato si sarà ripreso. Perché questa massiccia mobilitazione, che coinvolge UniCredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Ubi Banca e Bpm? Se Zaleski avesse cominciato a vendere le sue azioni, avrebbe prodotto due effetti devastanti: avrebbe appesantito i corsi di quei titoli (che di questi tempi non se la passano bene) e avrebbe lasciato vagare pacchetti «pesanti» a prezzi da saldo con il rischio che qualche «mal intenzionato» si avvicinasse alla plancia di comando dei «santuari». Per questo non c’è voluto molto per radunare le forze e mettere in piedi il soccorso. In fondo 1,6 miliardi da prestare a Zaleski per le cinque maggiori banche italiane non sono gran cosa. C’è però un effetto «spiazzamento» da considerare. Se l’ordine diffuso alla rete è«ridurre i prestiti», come farà il direttore della filiale di Monza di UniCredit a spiegare al mobiliere Luigi Brambilla che non gli può rinnovare un fido perché c’è la crisi? E come farà il direttore della filiale di Treviso di Intesa Sanpaolo ad annunciare ai suoi clienti imprenditori della meccanica che non può più scontare le fatture? Come farà il Montepaschi a chiedere più garanzie agli artigiani di Siena per rinnovare i prestiti? Perché questa è ormai la situazione che si registra sul territorio,come ha confermato l’indagine della Banca centrale europea sull’erogazione del credito e come ha testimoniato il presidente della Piccola industria di Confindustria Giuseppe Morandini sul Sole 24Ore di ieri. Il mercato delle emissioni obbligazionarie si è prosciugato completamente e le banche, assetate di liquidità, non fanno più prestiti. Oppure, quando li fanno, se li fanno pagare più cari, nonostante i tassi di riferimento stiano scendendo, e chiedono più garanzie. Far notare questa contraddizione non significa essere populisti. Per le banche difendere Zaleski è come sostenere il titolo in Borsa impedendo che si deprezzi ancora. Ma lasciare le piccole e le medie imprese al loro destino significa tirare il freno di un’economia che già fatica ad avanzare. O meglio, che sta arretrando sotto il peso di una recessione più profonda del previsto. Le banche italiane, oltretutto, saranno presto ricapitalizzate dallo Stato, con il denaro dei contribuenti, se il braccio di ferro in atto sul costo di quei capitali si risolverà. Il Governo, a differenza di quanto è accaduto in altri Paesi, non interferirà nella gestione e i banchieri resteranno al loro posto, grazie al fatto che i gruppi finanziari italiani si sono mostrati più prudenti, almeno per quanto è dato sapere finora, dei loro concorrenti. Ora però tocca a loro farsi valere sostenendo chi lo merita e non rintanandosi in meccaniche applicazioni di schemi contabili. In fondo è quello che si è sempre chiesto alle banche: saper valutare la qualità dei progetti, l’orizzonte di crescita di un’impresa, il suo equilibrio finanziario di medio periodo. E la lezione della crisi che il mondo dovrebbe aiutare ad affrontare meglio il futuro: chi produce e sta sul mercato conta più dei Re Mida della finanza.