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 2008  novembre 10 Lunedì calendario

PERCHE’ FACCIAMO SCHIFO?


Il motociclista Valentino Rossi che dà una grattata ai ”gioielli di famiglia” durante un giro di ricognizione della pista. L’ex premier britannico Tony Blair che sbadiglia a fauci spalancate in Parlamento. E Hillary Clinton pizzicata con le dita nel naso durante le primarie per la presidenza degli Usa…
Perché queste attività fisiologiche suscitano tanto clamore e divertimento, tanto che un celebre sito di gossip, tmz.com, ha dedicato un’intera galleria fotografica ai divi di Hollywood colti con le dita nel naso? Perché li rendono più ”umani” e vicini a noi. Nel 2002, in un sondaggio su 6 mila persone svolto dal Museo delle scienze di Londra, il 33% degli intervistati ha confessato di mettersi le dita nel naso almeno 5 volte al giorno; altrettanti hanno ammesso di ruttare rumorosamente in pubblico, senza provare vergogna; e il 29% ha dichiarato di fare peti in luoghi pubblici.

Ma perché tante attività corporali, di per sé naturali (eruttare, fare peti, pulirsi i denti, tagliarsi le unghie, defecare, sputare…), sono considerate repellenti tabù se attuate in pubblico?
La domanda non è banale. Anche perché questi divieti non sono condivisi a tutte le latitudini. E molti di questi comportamenti non presentano obiettivamente grandi rischi per la salute.
I rutti (eruttazioni, in termini scientifici) sono l’emissione di gas gastrico prodotto dalla fermentazione batterica dei cibi. Dunque, un fenomeno naturale e, di per sé, privo di rischi igienici per un ipotetico vicino. Tanto che nel mondo arabo l’eruttazione è considerata un segno di gradimento del cibo. E nelle Isole Gotriand (oceano Pacifico) non sì può entrare in una capanna se non dopo aver udito l’invito del padrone di casa: un… ruttino!
In Occidente, i rutti sono considerati repellenti per motivi culturali: sono associati, spiegano gli antropologi, al vomito, una delle ”espulsioni” ritenute più schifose.

Discorso simile vale per la flatulenza, di per sé solo un indice di regolare attività intestinale. Anzi, trattenerla può favorire la stitichezza. Eppure, spetezzare in pubblico era giù vietato al tempo di monsignor Giovanni Della Casa e del suo Galateo (1558). Perché il rumore e l’odore evocano la defecazione e gli escrementi, oggetto di disgusto e potenziali portatori di germi…
Secondo il critico letterario russo Michail Bachtin, questi divieti sono nati intorno al 1600, al tempo delle monarchie assolute europee, ed esprimono una costrizione politica e classista: per essere educati è d’obbligo «mangiare senza far rumore e tappare e limitare il corpo in ogni maniera».
La civilizzazione, aggiunge il sociologo tedesco Norbert Elias, implica infatti un controllo sempre più stretto sugli istinti aggressivi e sessuali: per avere una società pacifica, tutti devono limitarsi. Da allora, è considerato ”civile” solo chi si autocontrolla: tutti gli altri sono giudicati incivili, ignoranti, ”out”. «Lo sfarzo della vita di corte ha prodotto nuovi sentimenti di pudore verso la corporeità» osserva Antonio Riccio, docente di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. «Così lo svolgimento delle funzioni corporali è diventato sempre più intimo, fino a essere confinato in apposite enclave (camera da letto, bagno). Il nuovo standard di civiltà è diventato il pudore». Così, il ”rutto libero” resta una confidenza tollerata in famiglia o fra amici, oppure come esibizione goliardica.

E che dire dello sbadiglio? «Facendolo, si emettono micro particelle di acqua attraverso cui viaggiano virus e batteri. Quindi, coprire la bocca ha un fondamento igienico» risponde Fausto Orecchio, vicedirettore dell’Istituto d’igiene dell’Università Cattolica di Roma. «Tuttavia, è molto più pericoloso toccare le tastiere dei computer o i carrelli del supermercato, che sono vere colonie batteriche. Si trattengono gli sbadigli più che altro perché aprire la bocca significa scoprire qualcosa di intimo». Con un ulteriore fattore: uno sbadiglio non trattenuto è malvisto perché considerato un indice di noia o scarso interesse. E fin dall’antichità: Vespasiano rischiò una condanna a morte perché osò sbadigliare mentre l’imperatore Nerone cantava al teatro di Roma. Ma in altre culture ha un valore diverso, come mostra l’appellativo di Geronimo (’Colui che sbadiglia”) noto capo Apache. «Nelle società tribali, lo sbadiglio conserva, forse, il significato di dominanza gerarchica presente in talune specie animali» spiegano Gianluca Ficca e Piero Salzarulo (autori del libro Lo sbadiglio dello struzzo). Molti mammiferi, infatti, usano lo sbadiglio (spalancare le fauci mostrando i denti) come segno di aggressività e di potere. Ed è plausibile che anche nell’uomo vi siano tracce di questo significato ancestrale.

Ma che c’è di male nel darsi una grattatina? E’ un atto naturale (lo fanno anche gli scimpanzé fra loro, e l’atto denota confidenza) ma nella nostra cultura esprime sporcizia, trascuratezza e anche possibili problemi di salute. Ma se si pensa che i trobriandesi (Papua Nuova Guinea) amano mangiarsi i pidocchi che si tolgono vicendevolmente dai capelli, si comprende come la nostra idea di igiene sia tutt’altro che universale. Come spiega Stefano Allovio, docente di Antropologia culturale all’Università di Milano «il concetto di igiene è relativo e dipende da abitudini culturali diverse. Europei e trobriandesi sono più simili di quanto si voglia ammettere: entrambi ritengono ”ragionevoli” le proprie abitudini e ”disgustose” quelle degli altri». Per i trobriandesi, ad esempio, è disgustoso fare picnic trasportando zaini colmi di cibo…

Nella nostra cultura, tutte le pratiche d’igiene personale devono essere nascoste agli estranei. Il bon ton impone di non togliere residui di cibo dai denti con le dita (ma nemmeno con gli stuzzicadenti, se non si copre la bocca con la mano) o di rimuovere in pubblico lo sporco dalle unghie! Per quale ragione? Lo ha scoperto il sociologo canadese Erving Goffman: «La vita sociale è come una recita teatrale in cui ognuno interpreta più ruoli a seconda del pubblico che ha davanti. Così i comportamenti umani si dividono in una ribalta e in un retroscena: il retroscena è un luogo sicuro, perché nessuno può entrarvi». Ed è solo qui che l’individuo è libero di lasciarsi andare a tutti i comportamenti più sboccati: come osserva Riccio «la pulizia personale si confina nel ”dietro le quinte” della vita sociale, perché può demolire l’immagine pubblica curata, che l’uomo occidentale costruisce con tanta cura».

Quando si parla di escrementi, però il discorso cambia: sono oggettivamente un veicolo di infezioni… Eppure, nell’antica Roma non si provava ribrezzo, né imbarazzo nel conversare con estranei mentre si defecava assieme nelle latrine pubbliche. Dal Medioevo, però, le latrine comuni vennero etichettate dalla Chiesa come luoghi impuri e di perdizioni, e farla in pubblico divenne un atto immorale. Ed è cosi che, a parte qualche eccezione (Luigi XIV riceveva gli ospiti sulla sua sedia-wc), cacca e pipì si trasformarono in un affare privato: interessando parti intime, divennero motivo di vergogna. E, se per la pipì vi è qualche margine di tolleranza (soprattutto fra i maschi), «la cacca è la cosa più personale e riservata che abbiamo» dice Umberto Eco. Ma perché ne siamo tanto gelosi? Per il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, fino ai 3 anni d’età i bimbi vivono la fase anale, in cui il piacere e l’interesse sono incentrati sulla cacca; sotto la spinta dell’educazione (’la cacca è sporca, va trattenuta e fatta solo nel vasino”), questo amore per la pupù verrebbe inibito e sostituito dal pudore per la defecazione.
Ma le teorie freudiane, così come l’idea della cacca in pubblico come atto immorale, non si adattano a tutti i contesti culturali. Vi sono, infatti, società in cui la defecazione pubblica non è un tabù: alle Isole Salomone, ad esempio, è un rito collettivo che coinvolge l’intero villaggio.

E che dire degli sputi? Sono entrati nella lista delle cattive abitudini per obiettive ragioni sanitarie. Nel 1800, per contenere l’abitudine di sputare a terra catarro (infetto!), nei locali e nelle strade si diffusero le sputacchiere. Il loro uso diminuì con l’epidemia di influenza spagnola che, tra il 1918 e il 1919, fece milioni di vittime. E nel secondo dopoguerra scomparvero.
Da allora, sputare per strada è segno di maleducazione ma in Oriente è un’abitudine diffusa.

Anche il divieto di infilarsi le dita nelle orecchie per smuovere il cerume, oppure nel naso per asportarsi le ”caccole”, ha un fondamento medico. Muco e cerume proteggono dall’ingresso di funghi e batteri e sono, quindi, un ricettacolo di organismi patogeni. Ma per molti lo scaccolamento è un passatempo irrefrenabile: c’è persino un manuale umoristico dell’inglese Roland Flicket, L’antica arte di mettersi le dita nel naso. In 127 pagine sono elencate con ironia dissacrante molte tecniche, di solito apprezzate più dagli uomini che dalle donne «a cui» osserva Riccio «la società ha sempre imposto un maggiore autocontrollo, perpetuando un modello di femminilità idealizzata e incorporea».
Per assaporare un senso di libertà e superare i condizionamenti culturali, non resta che lo spazio della comicità, l’unico campo di libera (e catartica) espressione. Basti ricordare l’Inno del corpo sciolto di Roberto Benigni, che celebra le gioie del defecare: ”perché cacare soprattutto è cosa umana”.


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Box p. 54
Contrordine: i ”capperi” fanno bene. Parola di pneumologo.

Un rinomato pneumologo austriaco, il dottor Friedrich Bischinger, ha sorpreso il mondo rivalutando la pratica (tanto amata dai bambini e fortemente inibita dai genitori) di mangiarsi le caccole del naso: l’ingestione dei ”capperi” nasali, giura il medico di Innsbruck, è un vero e proprio toccasana! Per la sua concentrazione di batteri, il muco, arrivando nell’intestino, stimolerebbe gli anticorpi, rinforzando il sistema immunitario. Il principio, in fondo, è simile a quello dei vaccini, che attivano le difese naturali dell’organismo introducendo nel corpo piccole quantità di agenti patogeni. Se questa stravagante teoria (menzionata perfino sull’autorevole rivista scientifica inglese New Scientist) fosse confermata, infilarsi le dita nel naso e mangiarne il contenuto diventerebbe, a tutti gli effetti, un’ottima abitudine: non a caso, Bischinger ha invitato le famiglie a lasciar liberi i bambini di scaccolarsi a piacimento.

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Box p.56
Quando i rutti diventano gara

A Reggiolo (Re) c’è ”Rutto-sound”, una gara di rutti in cui gli sfidanti si confrontano in varie specialità: rutto di potenza, rutto in lungo e rutto parlato. L’iniziativa, nata nel 2002, ha successo (18 mila persone il pubblico quest’anno) e fini benefici: destina il ricavato per finanziare ospedali di zona. I migliori risultati? 1 minuto e 18 secondi per il rutto in lungo e 142,9 decibel (come un colpo d’arma da fuoco) per quello di potenza. Il rutto parlato è un virtuosismo: durante l’eruttazione gli ”atleti” pronunciano frasi di loro scelta, da ”M’illumino d’immenso” a ”Supercalifragilistichespiralidoso”, o canzoni, siano esse patriottiche (’Fratelli d’Italia”) o persino romantiche (’Ti amo”).

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Box p.60

L’hit parade del disgusto: vomito batte pus.

Cosa fa più schifo fra le secrezioni umane? Due ricercatori australiani, Keith Allan e Kate Burridge della Monash University, hanno chiesto a un campione di persone di valutare vari ”prosotti” corporei con un punteggio da 1 a 5 (da ”molto ripugnante” a ”non ripugnante”). La classifica vede al primo posto feci e vomito, giudicati molto ripugnanti dall’85% degli intervistati. Seguono: sangue mestruale (80% degli uomini e 47% delle donne), rutti (78%), muco e peti (70%), pus (67%), sperma e urina (58%) e sputi (50%). Il sudore ottiene un punteggio intermedio, mentre tra i meno rivoltanti troviamo: frammenti di unghia, alito, sangue delle ferite, ciocche di capelli, latte materno e lacrime.
Gli studiosi hanno anche dimostrato che non occorre entrare in contatto con qualcosa di repellente per provare una sensazione di disgusto: le parole che lo rappresentano in modo diretto bastano a provocare una sensazione di fastidio. Questo spiega perché usiamo eufemismi e giri di parole: ”andare in bagno” anziché ”cagare”, ”rimettere” invece di ”vomitare”, ”avere il ciclo” (o le ”proprie cose”) anziché ”avere le mestruazioni”, e così via.

Didascalie:
- Nel XVII° secolo molti nobili portavano gli stuzzicadenti come ciondoli alle collane.
- In Cina c’è un ristorante con sedili-wc