Mario Baudino, La Stampa 10/11/2008, 10 novembre 2008
MARIO BAUDINO
Sono le 4 e 57, ora italiana, del 21 luglio 1969, e un uomo che sta per porre piede sulla Luna guarda fisso negli occhi quello che lo seguirà di lì a poco. Non c’è un vero motivo perché lui, Neil Armstrong, sia il primo, e l’altro, Edwin Aldrin detto Buzz, il secondo. C’è però, appunto, un primo e un secondo: per un evento unico nella storia del mondo. Armstrong ha paura. Forse per un istante odia il compagno cui sta negando per sempre qualcosa di irripetibile. Forse lo teme, o forse sente il peso della sua solitudine. Il loro confronto psicologico a una sola voce rappresenta un modello antico, una costante tragica della condizione umana. La stessa domanda si ripropone ogni giorno, con minore intensità, nella nostra vita: perché io e non lui? Non c’è risposta. C’è piuttosto qualcosa di vertiginoso nel cercare la risposta, e di assai poco rassicurante: siamo tutti, a nostro modo, Armstrong e Aldrin?
Tra poco verranno celebrati i quarant’anni da quello storico momento, ma da tempo il tema degli astronauti che conquistarono la Luna non pareva d’attualità. Ora, improvvisamente, due scrittori che non si conoscono, di generazioni diverse, e per di più anche parecchio lontani geograficamente tra di loro, ne fanno il cuore dei loro libri, appena tradotti in Italia, e che stanno ottenendo una grande attenzione in tutto il mondo. Quello che ha immaginato i pensieri di Armstrong è lo spagnolo Antonio Muñoz Molina, nel romanzo Il vento della luna (Mondadori, pp. 339, e18,50). L’altro è il norvegese Johan Harstad, di cui Iperborea ha pubblicato Che ne è stato di te, Buzz Aldrin? (pp. 520, e16,50). Nulla sembrerebbe accomunarli. Muñoz Molina vive a Granada, sotto il sole dell’Andalusia, ha superato i cinquant’anni, ricevuto infiniti premi: è, almeno dai tempi di Sheparad, un autore affermato. Harstad è un outsider, vive tra Oslo e Stavanger, la capitale del petrolio norvegese dov’è nato ventinove anni fa; ma tutti e due hanno scritto la storia di un ragazzo, un adolescente nel primo caso, un giovane uomo nel secondo, alla ricerca di una misura per la propria esistenza. Proiettata sulla figura degli astronauti.
Nel Vento della luna si incrociano i ricordi della Guerra civile con il contrasto tra la conquista spaziale e l’arretratezza agreste della Spagna nel ”69, oppressa da una cappa di terrore retorico e bigotto; nel romanzo norvegese l’ambiente è la società ricca dei giorni nostri, quella dove ognuno cerca il suo lampo di visibilità e di successo. Ma il protagonista «sarebbe stato un tipico norvegese, 13 anni fa, prima del petrolio. Oggi può apparire un caso clinico», ci spiega Harstad. Il suo libro è il più recente caso letterario che arriva dal Nord, anche se per una volta non si tratta di un giallista. Dovendo cercare un paragone per questo romanzo di avventure e incidenti mentali, verrebbe da pensare a La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Perché Mattias, il protagonista, è semplicemente uno che non vuole arrivare primo. Il suo massimo desiderio è non lasciar traccia di sé. Soffre di depressione. Si rifugia nelle desolate isole Faore, dove non cresce nemmeno un albero. E soprattutto si identifica con Buzz Aldrin, il secondo uomo a posare il piede sulla Luna, 19 minuti dopo Armstrong.
«Non tutti - dice - vogliono dirigere un’azienda. Non tutti vogliono essere i più grandi campioni del Paese o far parte di svariati consigli d’amministrazione, non tutti vogliono avere i migliori avocati... Qualcuno vuole vedere il film, non starci dentro». Però non è facile. «Serve una forza di volontà immensa, e fortuna, e abilità per arrivare primi. Ma serve un cuore gigante per essere il numero due». La sua è l’epopea dell’ultimo arrivato nella famiglia dei Bartleby, lo scrivano di Melville che usava rispondere «preferirei di no». Senza rabbia sociale o generazionale. I genitori sono ottime persone, la gente non è male, nelle isole ci si aiuta al modo ruvido dei solitari. «Quando ho cominciato a scrivere - ci racconta Harstad - pensavo che il mio fosse un personaggio speciale. Poi, andando avanti, mi sono accorto che non lo era affatto. Mi ricordava i miei vecchi compagni di scuola, quelli che non parlavano mai, e magari adesso li ritrovi su Internet con una gran voglia di scrivere, spiegarsi, comunicare. Mi sono accorto che ci sono tipi felici anche se il loro lavoro è svuotare le pattumiere. La mia è una lode della vita normale».
Alle Far Oer, le isole perse nell’Atlantico dove si svolge in un paesaggio veramente lunare gran parte del romanzo, è andato davvero. «Hanno un alto tasso di suicidi. Ma per me erano il paese delle favole, misteriose e entusiasmanti. Mi sono accorto che erano tutte per me. E la prima volta che ci sono arrivato è stato un po’ come mettere piede sulla luna». Come la capsula Apollo. Harstad non ha cercato il successo, c’è inciampato alla soglia dei trent’anni. Lavora in una banda rock, suona quello strumento simile a una sega che emette lunghe e talvolta agghiaccianti vibrazioni, si è nutrito di «letture anarchiche e generazionali» e soprattutto ritiene che sia importante «fare molte cose». «La sostanza è questa - conclude il giovane scrittore -: posso restare anonimo, ma devo fare il mio lavoro». Come Buzz Aldrin, gli chiediamo? «Certo, proprio con lui. Dei due scesi sulla Luna, non dimentichiamolo, era il più esperto e il più bravo». Ma fu il secondo, e col tempo nessuno più si ricordò di lui. Ora è tornato all’improvviso, su un’orbita che attraversa l’Europa. Forse per rispondere alla domanda di Muñoz Molina: che magari sta diventando molto più frequente di quanto si pensi.