Luca Ricolfi, La Stampa 10/11/2008, 10 novembre 2008
Siamo tutti preoccupati per la crisi, se non altro perché non sappiamo ancora né quanto durerà né quanto sarà profonda
Siamo tutti preoccupati per la crisi, se non altro perché non sappiamo ancora né quanto durerà né quanto sarà profonda. C’è chi pensa che fra sei mesi l’economia ripartirà, e c’è chi teme che ci vorranno anni per uscire dal tunnel, come nel 1929. Gli economisti, con grande soddisfazione dei non-economisti (vedi il sociologo Ulrich Beck su La Repubblica di qualche giorno fa), si mostrano divisi su quasi tutto: cause della crisi, ruolo della speculazione, responsabilità della politica, rimedi a livello globale, rimedi nei singoli Stati (sull’Italia, solo nelle ultime settimane, ho contato almeno cinque ricette diverse). C’è un punto, però, su cui forse potremmo riflettere tutti, indipendentemente dal lavoro che facciamo e dalle convinzioni che professiamo: le crisi economiche non sono mai un bene ma, una volta che ci finiamo dentro, diventano anche straordinarie opportunità, che sarebbe un peccato sciupare. In che senso la crisi, questo male oscuro che si è impadronito delle nostre vite e delle nostre menti, è anche un’opportunità? A mio modo di vedere in due sensi fondamentali. Il primo è stato forse illustrato nel modo più chiaro dagli economisti della cosiddetta «scuola austriaca», come von Hayek e Schumpeter. Essi non si illudevano che il capitalismo fosse una macchina perfetta, capace di procedere senza scosse lungo un sentiero di crescita permanente (questa illusione, semmai, è tipica dei loro critici). Il capitalismo è invece un modo di produzione che procede alternando fasi di prosperità, in cui gli squilibri si formano e si aggravano, e fasi di crisi, in cui gli squilibri si attenuano e si correggono, preparando le condizioni per una nuova fase di prosperità. Vista da questa prospettiva, la crisi non è semplicemente un male più o meno evitabile ma è il momento necessario e insostituibile della «distruzione creatrice», quella fase cioè in cui il sistema si autocorregge eliminando le inefficienze, tagliando i rami secchi, rinnovando le tecnologie, aprendosi a nuovi soggetti, ricchi di idee e voglia di metterle alla prova. Lo sottolineava a modo suo Montezemolo in un’intervista di qualche settimana fa, quando faceva notare che le fasi di prosperità del capitalismo sono anche fasi di «degenerazione», mentre quelle di crisi sono di «rigenerazione». Può sembrare paradossale, ma da questo punto di vista la crisi è (anche) un bene: non solo produce una riallocazione più efficiente delle risorse economiche, ma riduce molti degli squilibri sociali che abbiamo accumulato negli anni precedenti. E infatti i primi a pagare la crisi sono gli speculatori, i manager che hanno male amministrato le loro aziende, i ceti elevati (il cui portafoglio ha una quota maggiore di azioni e titoli a rischio), i lavoratori autonomi che hanno gonfiato i prezzi e ora fanno i conti con il calo dei consumi e i primi segnali di deflazione (nel bimestre settembre-ottobre l’indice dei prezzi è sceso rispetto al livello di agosto). La crisi, naturalmente, genera anche nuove diseguaglianze ma il saldo complessivo è una riduzione degli squilibri fra Paesi e interni ai Paesi: chi è vissuto chiedendo denaro in prestito (come governo e consumatori americani) dovrà restituire una parte dei propri debiti, chi ha costruito imperi di carta vedrà ridimensionati il proprio potere e la propria ricchezza. Ma c’è anche un secondo senso in cui la crisi è un’opportunità. La crisi può essere l’occasione che ci costringe a compiere finalmente le scelte che avremmo dovuto già fare nei periodi di prosperità ma che, senza la crisi, non avremmo mai trovato la forza di fare. Anche questo può apparire paradossale, ma la realtà è che le scelte coraggiose i nostri governi non sono mai riusciti a farle quando sarebbero costate di meno (ad esempio nel 2006-2007, quando l’economia era tornata a crescere), ma sono invece stati talora indotti a compierle sotto la spinta degli eventi, ossia proprio quando costavano di più (ad esempio nel 1992-1995, durante l’ultima grande crisi della lira: ricordate la «stangata» di 90 mila miliardi del governo Amato?). Quello che stiamo attraversando è uno di questi momenti, in cui intervenire costa di più, ma nello stesso tempo è più facile perché ci si rende conto che certe scelte non possiamo più rimandarle. Quali scelte? Fondamentalmente due, una negativa e l’altra positiva. Quella negativa è stata descritta chiaramente, qualche giorno fa, dall’economista Alberto Bisin su questo giornale: «Le recessioni sono momenti in cui il sistema economico ”si ripulisce”. Le imprese che non producono reddito falliscono e liberano risorse che sono riallocate alle imprese più produttive. Questo processo è necessario perché un’economia sia sana e produttiva nel lungo periodo: non va assolutamente impedito». Ma evitare gli aiuti di Stato inutili o controproducenti non basta. La scelta positiva che non possiamo più ritardare è quella di trasformare il nostro Stato assistenziale in un vero Stato sociale. Gli sprechi nella pubblica amministrazione, secondo le stime più prudenti, ammontano a 80 miliardi di euro l’anno. Recuperandone, gradualmente, anche solo la metà, potremmo assicurare ai cittadini le quattro cose essenziali che sono tuttora drammaticamente carenti in Italia: asili nido, assistenza agli anziani (e ai non autosufficienti), politiche contro la povertà, ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori e non solo per chi ha la fortuna di lavorare in una grande impresa. Quest’ultimo punto, probabilmente, è il più importante in questo particolare momento, in cui le prime imprese cominciano a chiudere, le ore di cassa integrazione aumentano, la disoccupazione torna pericolosamente a salire: proprio perché, per riprendere a crescere, le imprese inefficienti vanno lasciate al loro destino, è essenziale garantire a chi perde il lavoro una rete di protezione universale, facendo cadere una volta per tutte l’odiosa distinzione fra lavoratori di serie A, difesi dalla legge e dai sindacati, e lavoratori di serie B, dimenticati da Dio e da tutti.