Giorgio Cosmacini, Corriere della Sera 9/11/2008, 9 novembre 2008
La medicina, talora o sovente, si situa tra la scienza e il mito, per esempio tra la scienza di una longevità garantita dagli sviluppi ulteriori delle biotecnologie e il mito di una immortalità promessa in passato dagli elisir dei medici alchimisti
La medicina, talora o sovente, si situa tra la scienza e il mito, per esempio tra la scienza di una longevità garantita dagli sviluppi ulteriori delle biotecnologie e il mito di una immortalità promessa in passato dagli elisir dei medici alchimisti. Nell’ottica di una perdurante mitologia, il villaggio d’alta quota di Vilcabamba in Ecuador e gli altipiani georgiani della catena del Caucaso – luoghi di una geografia umana dov’è massima la concentrazione della vita ultracentenaria (sempre che il computo anagrafico sia attendibile) – possono essere visti come paesi d’eterna giovinezza o aree planetarie in cui si vive tanto a lungo quanto il novecentosessantanovenne Matusalemme della Bibbia. Sotto l’aspetto non mitologico, ma scientifico odierno, suffragato dal quasi raddoppio in un solo secolo dell’ aspettativa di vita alla nascita (passata dai 40 anni d’inizio Novecento agli oltre 70 anni d’inizio Duemila), la conoscenza integrale della chimica della vita, la trapiantologia, l’interventistica biomolecolare e quant’altro promettono l’estinzione in tempi medio- brevi di malattie ancora ai primi posti tra le cause di morte, recando seco l’immagine avveniristica di un «uomo del futuro» ultracentenario. Ci furono e quanti furono gli ultracentenari «uomini del passato»? L’antropologo Paolo Mantegazza, nel suo Elogio della vecchiaia (Milano 1895), pubblicato in un’ epoca in cui i centenari erano pochi, censisce un certo numero di «quasi centenari» eccellenti, da Platone, che a 90 anni filosofava ancora nell’Accademia, a Goethe, che a 92 anni metteva fine al Faust, senza dimenticare Tiziano «che a 99 anni dipingeva ancora quadri stupendi». Ben più numerosi dovevano esser stati i vecchi o vecchissimi non eccellenti, la cui identità anagrafica è stata dimenticata dalla storia. In epoca rinascimentale, l’ottuagenario gentiluomo Alvise Cornaro, sulla scorta della propria e altrui esperienza di individui longevi, diede il titolo di Vita sobria ai suoi «discorsi» sull’«arte di vivere », un’arte necessaria (anche se non sufficiente) per farsi raggiungere dalla «morte naturale » il più tardi possibile. Era un’arte che, se bene esercitata, poteva condurre a un’età centenaria e fare della vecchiaia una «età felice», o non meno felice delle età precedenti. All’epoca in cui scriveva Cornaro, la vita media era risalita, dopo il crollo dovuto alle ripetute crisi pestilenziali, intorno ai 35 anni. Vivere oltre gli 80 significava prolungarla ben oltre il suo doppio. come se oggi, in cui la vita media si aggira – come s’è detto – intorno ai 70 anni, l’ottimizzazione dello stile di vita comportasse una aspettativa degli anni da vivere di gran lunga superiore ai 120 anni che ripetutamente ci vengono promessi. Comparare fra loro passato e presente è sempre problematico e talora infido. Tenuto conto delle sette età della vita indicate da Sant’Agostino – infanzia, puerizia, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia, decrepitezza – una correlazione ingenua porterebbe a dire che i paesi ipersviluppati del nostro pianeta, dato l’invecchiamento crescente della loro popolazione, saranno in futuro abitati da un gran numero di centenari e ultracentenari di cui molti, agostinianamente, decrepiti.