Marino Niola, la Repubblica 9/11/2008, 9 novembre 2008
Cuore bianconero, anima blucerchiata, fede giallorossa. Sono espressioni che non hanno bisogno di spiegazioni, significano immediatamente, quasi naturalmente, un´identità, un´appartenenza, una passione, una storia
Cuore bianconero, anima blucerchiata, fede giallorossa. Sono espressioni che non hanno bisogno di spiegazioni, significano immediatamente, quasi naturalmente, un´identità, un´appartenenza, una passione, una storia. Sono gli emblemi araldici di quell´epica moderna che è il calcio. Dove i veri protagonisti sono i colori. Più delle parole, che passano. E più degli stessi campioni le cui gesta acquistano il loro significato eroico soprattutto se compiute al servizio di una maglia. Esattamente come le imprese dei cavalieri medievali, quelle di cui si favoleggiava di torneo in torneo, apparivano tanto più gloriose quanto più erano messe al servizio di una causa nobile, contro un nemico comune. Simboleggiati immancabilmente da un colore. Dal cavaliere verde e da quello bianco che nei racconti della Tavola rotonda combattono contro i prodi Galvano e Galahad, all´invincibile Ivanhoe, il cavaliere nero che nel romanzo di Walter Scott cela dietro il non colore per eccellenza la sua condizione di diseredato, senza casato e senza nome. Per non dire del turbolento Giovanni de´ Medici, il condottiero rinascimentale passato alla storia come Giovanni dalle bande nere perché, in segno di lutto per la morte di Papa Leone X, cambiò le sue insegne a strisce bianche e viola con le celebri bande nere. E del non meno famoso Guidoriccio da Fogliano, immortalato dal grande pittore Simone Martini che fa letteralmente scomparire il corpo del guerriero sotto la divisa a scacchi gialloneri che coprono lui e il cavallo. Come dire che la forza e il valore dell´uomo sono in funzione dei colori che rappresenta, delle insegne di cui è campione. Le giostre d´armi, le sfide equestri, le gare militari erano in realtà delle guerre simulate combattute tra colori contrapposti. Elmi, pennacchi, mantelli e scudi, era tutto un variopinto carosello in cui ciascuno era il suo colore. «Non sono io a portare la maglia ma è lei che porta me». Lo ha detto il fuoriclasse interista Patrick Vieira, ma potrebbe averlo detto molto prima il fiero Lancillotto che si batteva per i colori di re Artù e, soprattutto, della bella Ginevra. E la frase non sarebbe dispiaciuta nemmeno ai quattro moschettieri il cui motto - «uno per tutti, tutti per uno» - ricorda tanto la filosofia di Arrigo Sacchi, prima maniera. Proprio al rapporto tra i colori e lo sport, fra antiche guerre rituali e moderni rituali agonistici, è dedicato un bel libro di Sergio Salvi e Alessandro Savorelli intitolato Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione (Le Lettere). Un racconto dei miti e delle storie che girano intorno al calcio italiano e internazionale e che ne fanno, come diceva Pasolini, l´ultimo autentico rituale popolare. Un deposito di memoria collettiva, una macchina mitologica che costruisce leggende, inventa tradizioni, celebra i suoi eroi e distribuisce i suoi quarti di nobiltà. In realtà un lungo filo rosso unisce il calcio a quei conflitti ritualizzati che furono i tornei cavallereschi. Due mondi lontani ma entrambi accomunati da una ragione araldica. Basata sul rango quella della cavalleria, sulla passione sportiva e sull´appartenenza territoriale quella del football. In un caso e nell´altro si tratta comunque di passioni umane e vicende sociali che si esprimono nel linguaggio del colore. Forse il più semplice, il più elementare tra i segni cui gli uomini, e ancor prima gli animali, ricorrono per scriversi sul corpo identità e differenze. In realtà il gioco più bello del mondo eredita una grammatica dei colori che una volta fu il vero evidenziatore delle identità, dei ruoli e delle categorie sociali. A ciascuno la sua tinta, la sua sfumatura, la sua gradazione, il suo mélange. Giovani, anziani, ricchi, notabili, mercanti, aristocratici, medici, notai, folli, malati si riconoscevano dall´abito che portavano e dal colore che vestivano. L´essere e l´apparire obbedivano al codice cromatico che assegnava a ogni tinta determinati significati condivisi e noti a tutti, in modo da rendere facile il riconoscimento della persona vestita in una certa maniera e di un certo colore. Dal nero lampeggiante dei velluti preziosi al rosso cremisi dei corsetti, dal rosa polveroso dei giustacuori, al candido traforo dei collari di pizzo, all´azzurro dei pantaloni, al grigio delle tonache era sempre l´abito a fare il monaco. Ma anche il signore, il medico, il precettore, la mercantessa, l´educanda, la vergine, la cortigiana. E soprattutto il soldato. I colori delle divise, gli stemmi e le insegne dei reggimenti ebbero una funzione fondamentale nella guerra ancien régime. Che era uno scontro in campo aperto e all´arma bianca, un groviglio inestricabile di corpi in cui era fondamentale distinguersi, riconoscersi e farsi riconoscere. Anche per non essere confusi con i nemici. Ecco il perché delle giubbe rosse e pantaloni bianchi delle armate inglesi, delle giubbe blu e pantaloni rossi di quelle francesi, delle giubbe bianche e pantaloni azzurri degli austriaci, delle camicie rosse dei garibaldini contro il bianco dei borbonici, dei soldati blu nordisti contro le divise grigie dei ranger sudisti. Una sorta di caleidoscopio dove i colori si combinano e si oppongono gli uni in funzione degli altri, un colore contro l´altro. Lo sport di massa fa totalmente suo il linguaggio dei colori e lo adatta a quella ritualizzazione della guerra che è l´anima stessa dell´agonismo moderno. Una guerra a salve dove gli eserciti si trasformano in quella che l´etologo Desmond Morris ha chiamato la soccer tribe, la tribù del calcio. L´anima tribale del calcio, e in generale degli sport di squadra, si rivela in tutta la sua forza simbolica proprio nella venerazione dei colori e dei simboli sociali: stemmi, gagliardetti, bandiere, animali mascotte. E nei rituali di iniziazione e di appartenenza che hanno qualcosa di guerriero, di cavalleresco e di primitivo al tempo stesso. Al punto da dipingersi con le tinte della propria squadra, di tatuarsi sulla pelle i suoi emblemi, proprio come nella guerra tribale. Nel 1987, quando il Napoli di Maradona vinse il suo primo scudetto non solo gli ultras ma anche tantissimi distinti signori di mezza età andarono in giro per giorni con il volto completamente dipinto di azzurro. E molte signore della buona società ostentavano con orgoglio parrucche dello stesso colore, ricce e boccolute come i capelli del Pibe de oro. Anche l´identificazione nell´animale simbolo della propria squadra è una forma totemica, tipicamente tribale, un modo per cifrare la propria identità sportiva legandola ai miti d´origine della propria città. Così i romanisti si trasformano in lupi, i torinisti in tori, i baresi in galletti, gli alessandrini in orsi, i genoani e i perugini in grifoni, i supporter del Catania in elefanti, quelli del Chelsea in leoni, quelli del Valencia in pipistrelli. Spesso il modo stesso di raccontare la storia della propria maglia contribuisce a creare la mitologia di una squadra legando i simboli del proprio club a quelli della propria terra. Ma soprattutto conservando la memoria delle origini. Così la maglia della Juve che in principio era rosa sarebbe diventata bianconera solo perché un generoso sostenitore inglese spedì a Torino uno stock di casacche del Notts County. Mentre quella viola della Fiorentina pare sia dovuta a un lavaggio difettoso che stinse il biancorosso originario. In altri casi il colore della maglietta nasce in maniera assolutamente casuale, come nel caso del Boca Junior, la gloriosa équipe di Buenos Aires fondata nel 1905 da un gruppo di immigrati genovesi tanto litigiosi da non riuscire a trovare un accordo sui colori della maglia. Si decise così di adottare quelli della prima nave che fosse entrata in porto. Fu una nave svedese. E così il gialloblù diventò l´emblema della futura squadra di Maradona. Ogni colore racconta una storia, dunque. E dove i colori sono più d´uno vuol dire che di tante storie se n´è fatta una. Come nel caso della Sampdoria, nata nel 1927 dall´unione tra la Sampierdarenese e l´Andrea Doria, rossonera la prima e biancoblu la seconda. Il risultato della fusione fu una sfilza di colori sovrapposti: blu, bianco, rosso, nero, bianco, blu, con al centro lo scudo di San Giorgio simbolo della Repubblica genovese. questa l´origine della casacca blucerchiata, un autentico compromesso cromatico. Che per i tifosi diventa un indiscutibile articolo di fede, facendo dei colori sociali una seconda pelle. Uno scudo collettivo che porta inciso il proprio blasone. Proprio come quelli coloratissimi che nei tornei gli araldi presentavano al pubblico magnificando quei simboli e quei colori per i quali i campioni si battevano. Forse non è un caso che l´etimologia della parola colore nelle lingue indoeuropee sia strettamente imparentata con quella di parole come pelle e scudo. In ogni caso un contrassegno che unisce, una copertura che difende, un colore che identifica. Del resto come diceva Wolfgang Goethe, massima autorità in materia, il colore è l´espressione più naturale della divisione, dell´identificazione e della contrapposizione. E il variopinto mondo del calcio sembra fatto apposta per dargli ragione.