Paolo Berizzi, la Repubblica 9/11/2008, 9 novembre 2008
«TIRIAMO
la vita avanti», dice Totò Riina. Il vecchio boss malato ma sereno, che con filosofia si rassegna al fluire del tempo, che riempie pagine di lettere, chino sullo scrittoio. «Perché mi hanno tolto la televisione?, che ho fatto?» chiede, stizzito, Francesco Schiavone. Il nuovo boss che ringhia, che allude. La barba grigia e incolta del Capo dei Capi. Quella scura, lunga e curata di Sandokan. Il padrino di Cosa Nostra di qua, il re dei Casalesi di là. Area riservata 41 bis, carcere di Opera. Due tunnel super blindati - una cinquantina di passi - separano le vite in gabbia di Totò Riina e di Francesco Schiavone. Sono le due facce di chi ha ucciso e fatto uccidere e ora, nella pancia di questo cubo di cemento, il più sorvegliato d´Italia, si presentano con espressioni diverse. Una, quella di Riina, sembra quietata; l´altra per niente. Settantotto anni e dodici ergastoli uno, 54 anni e una recente condanna (processo Spartacus) al carcere a vita l´altro. Carriere criminali costruite in due piccoli paesi - Corleone e Casal di Principe - che con loro sono entrati nell´empireo di mafia e camorra, assurgendo - da semplici toponimi - a spietate organizzazioni criminali (i corleonesi, i casalesi).
Riina e Schiavone sono in carcere dal ´93 e dal ´98. Sottoposti al regime più duro, le aree riservate del 41 bis, quelle delle telecamere in cella, della socialità limitata (due ore) e con un solo "vicino", dei colloqui con il vetro. Una "bolla" invisibile al mondo. Perché nessuno, a parte i parlamentari, può entrare in queste aree. Il deputato radicale Maurizio Turco, l´altro giorno, è piombato a Opera chiedendo di potere visitare i detenuti-fantasma («Il governo dovrebbe consentire ai giornalisti di vedere e fare vedere come vivono questi detenuti, servirebbe come spot anti-mafia per i giovani che, vedendo solo il lato vincente del potere e non quello della sconfitta, del abbrutimento, del carcere a vita, continuano a farsi affascinare dai clan criminali»).
«Le fiere in gabbia» come li chiamano gli agenti penitenziari e come, al contrario - lo ha detto esplicitamente il 16 giugno in video-conferenza dal carcere de L´Aquila dove era detenuto prima - non vuole essere considerato "Sandokan" Schiavone.
Sono sei, nel penitenziario milanese, i detenuti del 41 bis. Turco ha trascorso un´ora e mezza nel girone dei dannati, faccia a faccia con alcuni dei boss di maggiore spessore criminale del Paese. I primi a ricevere la sua visita sono stati proprio Riina e Schiavone. Barba incolta, dimagrito, camicia scura, l´uomo che ordinò le stragi dei magistrati Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e le bombe di Roma, Firenze e Milano nel 1993, è seduto davanti al tavolino sistemato sul lato destro della cella due metri per tre. Nella sua "casa" ci sono un armadio aperto con dentro i vestiti, un muretto altro un metro e cinquanta che separa il bagno, il letto.
Il ministro Alfano ha deciso di inasprire il regime di 41 bis e di ampliarne l´applicazione, con un emendamento bipartisan al ddl sulla sicurezza approvato l´altro giorno in commissione giustizia al Senato. «L´unica cosa che voglio che si sappia è che Totò Riina è un detenuto modello», dice il vecchio boss. Lo ripete come un mantra. Tre volte. «Sono un detenuto modello». Quattro anni fa - sempre a Turco - consegnò questa frase sibillina: «Dica a Roma che non parlo». La Capitale, dunque il governo, dunque lo Stato al quale lanciò una sfida sanguinaria, fu anche al centro delle confidenze che Riina fece nel 2001 a Salvatore Savarese, un detenuto selezionato dal Dap per pranzare e parlare con il boss nel carcere di Ascoli Piceno: «Io sono il parafulmine d´Italia - si fece scappare - ma io, meschino, ho sempre travagliato, la vera mafia sta a Roma...».
Quando Turco gli domanda come sta (ha tre by pass e ha subito due infarti), il capo dei corleonesi stringe le spalle. Il volto è sereno, da vecchio capo ora rassegnato. Risponde: «Tiriamo la vita avanti». E la vita di Riina in carcere scorre tra le due ore di socialità al mattino (ha chiesto una cyclette per tenersi in forma), la lettura dei giornali (immancabile La Gazzetta dello Sport), le lettere che scrive continuamente alla moglie Ninetta Bagarella e ai quattro figli, e la televisione dove segue le imprese di Valentino Rossi e le partite di calcio. Sul piccolo schermo nei mesi scorsi non si perse nemmeno una puntata de "Il Capo dei Capi", la fiction sulla sua vita. Il commento sulla serie televisiva suonò tutto sommato benevolo: «Capirei se fossi morto, ma non lo sono ancora. Potevano aspettare un po´ per questo film, no?».
La televisione, in carcere, specie quando non c´è, può diventare anche fonte di angoscia. A cinquanta metri dalla cella di Riina c´è quella che ospita Francesco Schiavone. Tono grave, sguardo rabbioso: «Perché dal 9 agosto me l´hanno tolta?», chiede il boss che ha trasformato i Casalesi nel clan più violento e temuto d´Italia? Come se Sandokan volesse ignorare tutto quello che da agosto a oggi è successo. Le minacce a Roberto Saviano (fatte arrivare anche dall´aula di un tribunale attraverso la lettura di un testo da parte del suo avvocato), la strategia sanguinaria messa in atto dalla camorra casertana contro pentiti, rivali e extracomunitari. «Sono in 41 bis da 10 anni - racconta Schiavone - e da 5 in isolamento totale. Se voglio fumare devo chiedere l´accendino alle guardie. E il 9 agosto - non so perché - mi hanno tolto la televisione (misura prevista dal 14 bis, un ulteriore restringimento delle condizioni di detenzione). Che cosa ho fatto? Perché?».
La vecchia mafia di Riina e la nuova camorra di Schiavone si specchiano nel "cubo" di Opera. Tutti e due mandano un messaggio allo Stato al quale hanno fatto la guerra. Uno pensa a campare, l´altro abbaia.