Note: [1] Carlo Jean, Il Messaggero 6/11; [2] Ennio Caretto, Corriere della Sera 5/11; [3] Federico Rampini, la Repubblica 6/11; [4] Elena Polidori, la Repubblica 6/11; [5] Federico Rampini, la Repubblica 7/11; [6] Deborah Ameri, Il Messaggero 7/11; [7] M, 8 novembre 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 10 NOVEMBRE 2008
Con l’elezione di Barack Obama è cambiato il presidente degli Stati Uniti, non sono però cambiati né gli Stati Uniti né il mondo. Carlo Jean: «Sono rimasti quelli di ieri, con tutti i loro problemi. L’eredità che Barack Obama riceve è pesante. Raramente un nuovo presidente si è trovato con tanti difficili problemi - alcuni molto urgenti da risolvere - e con tanti debiti». [1] Quella che da qui al 20 gennaio 2009 lo vedrà protagonista insieme a G. W. Bush, sarà la transizione presidenziale più difficile degli ultimi 75 anni. Ennio Caretto: «La prima in tempo di depressione da quella tra il repubblicano Herbert Hoover e il democratico Franklin Roosevelt nel 1933. La prima in tempo di guerra da quella tra il democratico Lyndon Johnson e il repubblicano Richard Nixon nel 1968». [2]
Nel passaggio di consegne fra le Amministrazioni, un tempo le riunioni più importanti erano quelle in cui i servizi segreti rivelavano al nuovo presidente i dossier per la sicurezza nazionale. Federico Rampini: «Ma in queste ore oltre alle trame terroristiche Obama esamina la situazione del credito semiparalizzato, degli hedge fund in bilico, delle grandi corporation su cui incombe la bancarotta». [3] Nouriel Roubini, economista della New York University che aveva previsto con largo anticipo lo scoppio della bolla immobiliare, il crollo della fiducia dei consumatori e dunque il gran trambusto finanziario in corso: «Siamo ormai di fronte ad una recessione profonda, severa, globale che non si risolve certo con i miracoli. E non basta un uomo». [4]
Obama potrà aggredire solo un problema alla volta. Leon Panetta, ex capo dello staff di Bill Clinton: «Intanto deve abbassare la febbre delle aspettative, spiegare che il suo potere è limitato di fronte a una recessione di questa gravità». Gli iscritti alle liste di disoccupazione sono aumentati di 122.000 unità in un mese, raggiungendo 3,84 milioni, massimo storico da un quarto di secolo. Rampini: «Per Obama la festa della vittoria è già lontana, il confronto con la crisi è brutale. Il crac finanziario lo ha aiutato a sconfiggere McCain; ora l’economia può diventare la sua maledizione». [5] Bill Emmott, ex direttore dell’Economist: «Obama potrebbe durare un solo mandato se fallisce con la più importante sfida che ha di fronte: risanare l’economia americana e mondiale». [6]
Le promesse di Obama vanno confrontate con la povertà di mezzi. Rampini: «Vuole una sanità che estenda l’assistenza a decine di milioni di cittadini, senza rinunciare a meccanismi di mercato e libertà di scelta. Ha detto che taglierà le tasse su tutte le famiglie dal reddito inferiore ai 200.000 dollari (la vasta maggioranza) alzandole solo oltre i 250.000. Ha annunciato 150 miliardi di investimenti nelle energie rinnovabili per affrancare l’America dal petrolio mediorientale entro dieci anni». [3] Nella prima conferenza stampa da presidente eletto, ha fissato i punti della sua agenda economica. Massimo Gaggi: «Precedenza assoluta al piano di ”salvataggio” del ceto medio: più sussidi di disoccupazione (oggi concessi ai senzalavoro solo per sei mesi) e un pacchetto di stimoli economici per sostenere il sistema produttivo». [7]
Durante la campagna elettorale il candidato repubblicano John McCain si è concentrato sulla prospettiva di un aumento delle tasse in caso di vittoria democratica. Luca Cifoni: «Obama si troverà quindi a dover portare avanti il proprio piano, che prevede un inasprimento per i redditi più alti (il 5 per cento degli americani) e per i redditi da capitale (dal 15 al 20 per cento) scansando accuse di questo tipo». [8] Ed Yardeni, ex economista della Fed e grande conoscitore dei mercati internazionali: «Prima che Obama si insedi la recessione peggiorerà. importante che capisca che, applicando subito il suo piano di aumento delle tasse per i redditi più elevati, finirebbe per deprimere ancor più l’economia». [9]
La riforma sanitaria è forse la sfida più impegnativa che il nuovo presidente si troverà a gestire. Cifoni: «C’è il precedente ingombrante del 1993, quando Bill Clinton affidò alla moglie Hillary il compito di elaborare una riforma che poi naufragò, perché le compagnie assicurative ebbero buon gioco a presentarla come dirigista. Il piano di Obama prevede invece la compresenza di un servizio pubblico potenziato e delle attuali coperture assicurative private. Le aziende che non offrono questo beneficio ai propri dipendenti dovranno però versare contributi al sistema pubblico. L’obiettivo è assicurare una copertura ai 45 milioni di americani (tra cui 8 milioni di bambini) che oggi ne sono sprovvisti». [8] Il crollo finanziario degli ultimi due mesi rende più difficile l’applicazione di una riforma che secondo gli esperti di Obama costerebbe 65 miliardi di dollari, secondo gli analisti indipendenti almeno 100. [7]
Il programma di Obama contiene un capitolo energetico molto ambizioso, i cui obiettivi finali sono l’eliminazione della dipendenza energetica degli Stati Uniti dal Venezuela e dai Paesi del Medio-Oriente, e la creazione di 5 milioni di posti di lavoro ”verdi”. [8] Obama sostiene che il mix energetico degli Stati Uniti sarà composto da una parte di nucleare e da energie rinnovabili. Mario Tozzi: «Come questo possa accadere in quattro anni, visto che ancora oggi la metà dell’energia elettrica del Paese si fa con il carbone come un secolo fa, resta un mistero. Chi imporrà alle industrie statunitensi, in tempi di crisi economica, di dotarsi d’impianti di desolforazione molto più costosi? Certo Obama non perforerà i territori dell’Arctic Refugee dell’Alsaka (come aveva preannunciato la Palin) e non è espressione diretta dei petrocarbonieri come Bush, ma se la sentirà d’imporre alle case automobilistiche, intasate da decine di migliaia di suv invenduti, costosi dispositivi ecologici?». [10]
Altri interventi prioritari riguardano la scuola, le infrastrutture, il sostegno immediato ai consumi per le famiglie meno abbienti. Rampini: «E il ”New New Deal” di Obama non sarà completo senza una profonda revisione dei controlli e delle regole sui mercati del credito, una nuova architettura della finanza mondiale che impedisca il riprodursi di bolle micidiali e distruttive. Può uscirne un profondo riequilibrio dei rapporti di forze: dalla finanza in favore dell’industria; dalle imprese in favore dei lavoratori. Ma non è un gioco a somma zero in cui il mondo degli affari debba essere soltanto penalizzato. Gli investimenti nelle nuove tecnologie eco-sostenibili, o la riduzione della spesa sanitaria, offrono in contropartita l’opportunità di rilanciare la crescita su basi sane; di risollevare il capitalismo americano dalla paura». [3]
Obama eredita da Bush una politica estera in forte crisi, come non accadeva, secondo gli analisti, da quando Nixon vinse l’accesso alla Casa Bianca nel 1968. Roberto Livi: «Ecco il quadro di una situazione che può far tremare i polsi: la lotta senza quartiere contro il terrore ancora in corso; due pericolose guerre, in Iraq e in Afghanistan, che durano, rispettivamente, da cinque e sette anni; l’Iran avviato sulla strada di una possibile arma nucleare; l’eterno conflitto tra Israele e palestinesi; un Pakistan sempre più instabile e minacciato da un’insorgenza islamica; relazioni sempre più deteriorate (si parla di guerra fredda) con la Russia; una crescente rivalità con la Cina del boom economico; l’America Latina, tradizionale ”cortile di casa”, insidiata da Russia e Cina, e, soprattutto, una drastica caduta mondiale dell’immagine degli Stati Uniti». [11]
Le differenze rispetto alla politica estera di Bush saranno irrilevanti. Jean: «Nessuna grande potenza può avere una politica estera caratterizzata da forti discontinuità. Perderebbe ogni credibilità internazionale. Non troverebbe più alleati. Obama lo sa benissimo. Le differenze rispetto a Bush riguarderanno più i toni che la sostanza. Questo vale per l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran. Vale anche per la Russia e la Cina. Per l’Iraq, Obama ha molto sfumato le sue affermazioni di un rapido ritiro, che nelle primarie aveva promesso di realizzare in soli sedici mesi. D’altronde, il Pentagono l’ha programmato per la fine del 2011. Ha poi affermato che ritiene inaccettabile che Teheran si doti di armi nucleari e si è detto favorevole a sanzioni, ad incentivi e, come ultimo ricorso, anche ad un’opzione militare. Intenderebbe poi negoziare con l’Iran senza precondizioni. Nulla di particolarmente nuovo!». [12]
Americani ed iraniani discutono da un paio d’anni gli assetti geopolitici del Golfo e la stabilizzazione dell’Iraq. Jean: «Per l’Afghanistan, la posizione di Obama sembra essere addirittura più dura di quella seguita dall’Amministrazione Bush. Per lui, non esistono Talebani ”buoni”, con cui trattare. Pensa che tutti siano ”cattivi” e che gli USA debbano estendere gli attacchi alle aree tribali pakistane, dove hanno le loro basi. Dopo qualche incertezza, Obama ha inoltre condannato l’azione russa in Georgia ed ha ribadito la necessità di ammettere alla Nato sia Tbilisi che Kiev. Ha affermato infine che la superiorità militare americana fornisce un bene pubblico mondiale – quello della pace e della sicurezza internazionale - e che, se necessario, aumenterà ancora il bilancio del Pentagono». [12]
I rapporti euroamericani potrebbero entrare in una fase migliore. Sergio Romano: «Chi ha paragonato la vittoria di Obama a quella di Franklin Delano Roosevelt farebbe bene a ricordare che il presidente del New deal annunciò al suo paese, nel marzo 1933, una politica protezionistica. Come ogni presidente, anche Obama farà anzitutto gli interessi del suo paese. E gli interessi dell’America, in molte circostanze, possono non essere quelli dell’Europa». [13] Jean: «Se vorrà essere rieletto nel 2012, sarà inflessibile nel perseguire gli interessi nazionali e l’eccezionalismo americano nel mondo. La possibilità del ritorno al multilateralismo puro - in cui le decisioni verrebbero concordate fra gli USA ed i loro alleati - è un’illusione dell’Europa. Non è mai stato così». [12] Il saggista Paul Berman: «La diplomazia di Obama sarà quella del ”buon poliziotto-cattivo poliziotto”. Lui sarà il leader amato e popolare nel mondo che di fronte alle gatte da pelare spedirà Biden. Un mastino così difficile e ostico che le capitali estere concederanno qualsiasi cosa ad Obama pur di non dover trattare direttamente col suo vice». [14]