David Sedaris, Vanity Fair 12/11/2008, pagina 66., 12 novembre 2008
Vanity Fair, mercoledì 12 novembre Non so perché accada sempre così, ma che io ricordi, ogni volta che si entra nell’ultima settimana di una campagna presidenziale americana l’attenzione si concentra sugli elettori indecisi
Vanity Fair, mercoledì 12 novembre Non so perché accada sempre così, ma che io ricordi, ogni volta che si entra nell’ultima settimana di una campagna presidenziale americana l’attenzione si concentra sugli elettori indecisi. «Chi sono?», chiede il mezzobusto televisivo di turno, «e quale effetto possono avere sul risultato di queste elezioni?». A quel punto viene inquadrato un uomo o una donna - qualcuno comunque che a me invariabilmente sembra molto felice di essere in tv. «Sa che cosa?», dice. «Sono andato mentalmente avanti e indietro sui temi e i programmi e tutto il resto, ma per qualche motivo non riesco proprio a decidermi!». Alcuni sostengono che c’è una differenza minima tra il candidato A e il candidato B. Altri dicono di essere d’accordo con A sulla difesa e la sanità, ma di sentirsi più in sintonia con B sull’economia. Io li guardo e non riesco a credere che esistano davvero. Saranno attori professionisti?, chiedo a me stesso. O sono autentiche persone della strada alla ricerca disperata di attenzione? Per metterli in prospettiva, immagino di essere in aereo. La hostess passa con il carrello del pranzo, si ferma in corridoio accanto a me. «Gradirebe il pollo?», mi fa. «O preferisce forse il piatto di merda cosparso di vetro macinato?». Ecco: essere indecisi, in queste elezioni, equivale a esitare un attimo e poi chiedere come è cucinato il pollo. Voglio dire, davvero: come si fa a essere confusi? Quando dubito dell’esistenza di esseri umani indecisi su chi votare, però, rivado inevitabilmente con il pensiero al novembre 1968. Il democratico Hubert Humphrey sfidava il repubblicano Richard Nixon, e giacché mia madre non riusciva a decidere tra l’uno e l’altro, fece scegliere me. Fu pazzesco. Un minuto mangiavo patatine davanti alla tv, e il minuto dopo ero alla caserma dei pompieri, in fila assieme ai genitori dei miei compagni di scuola. Quando giunse il nostro turno, una donna con una fascia distintiva ci accompagnò a una delle cinque-sei cabine, e chiuse la tendina una volta che fummo entrati. «Avanti», disse mia madre, «premi un bottone. Qualsiasi bottone». Guardai il pannello di fronte a me. «Se ti metti a votare i giudici, i senatori e tutta quella roba lì restiamo qui tutto il giorno», mi incalzò, «quindi scegli il Presidente, e sceglilo in fretta. Abbiamo perso già abbastanza tempo». «Ma secondo te», chiesi, «chi dei due è meglio?». «Non ho un’opinione in proposito, se no perché facevo scegliere te? Dai, vota». Misi il dito prima sull’interruttore di Humprey, poi su quello di Nixon. Nessuno dei due nomi aveva per me alcun significato. Quello che mi piaceva della democrazia, a quel punto, era la cabina, il tranquillo senso di civiltà, l’aria di importanza. «Mmm», mormorai, chiedendomi quanto potevamo trattenerci prima che qualcuno venisse a buttarci fuori a calci. Se avesse potuto, mia madre avrebbe aspettato fuori ma, mi aveva spiegato, non avrebbero mai permesso di votare a un undicenne non accompagnato. Già era tanto che mi avessero fatto entrare: la fila era lunga, le urne erano aperte solo per un giorno. «Ti vuoi sbrigare?», sibilò. «Non sarebbe bello avere una cosa come questa nel nostro soggiorno?», le chiesi. «Potremmo usare tendine uguali a quelle che abbiamo alle finestre». «Basta: faccio da sola». Mia madre allungò il dito verso il bottone di Humphrey, ma io fui più veloce ed espressi il nostro voto a favore di Nixon, che almeno aveva il cognome uguale a quello di un signore che veniva sempre in chiesa con noi. Pensai che fossero parenti, e solo in seguito scoprii di essere in errore. Richard Nixon si era sempre chiamato Nixon, mentre il signore in chiesa aveva usato il cognome per accorciare quello originale, qualcosa di molto più divertente ma molto meno adatto ai manifesti elettorali, qualcosa tipo Nickapopapopolis. « andata», feci. Salimmo in auto, tornammo a casa e, quando mio padre le chiese per chi avesse votato, mia madre rispose che non erano affari suoi. «Che cosa vuol dire ”non sono affari tuoi”? Ti avevo detto di votare per i repubblicani». «Beh, forse l’ho fatto e forse no». «Non dirmi che hai votato per Humphrey», mio padre esclamò, e lo disse come se lei avesse deciso di uscire in strada con una pentola in testa. «No, non è quello che ti dico. Non ti dico proprio niente. Il voto è segreto, giusto? E le mie opinioni non ti riguardano». «Quali opinioni? Sono io che ti ho iscritto alle liste elettorali. Prima che te lo dicessi, non sapevi nemmeno che c’era un’elezione». «Beh, grazie per avermelo detto». Mia madre aprì una scatoletta di minestra ai funghi. La versò sopra le braciole e gli spaghetti e infornò la casseruola che costituiva la nostra cena-tipo. Una volta seduti a tavola, i miei genitori - ne eravamo certi - avrebbero smesso di discutere direttamente, e iniziato a farlo usando me e le mie sorelle come pedine. Mettiamo che Lisa raccontasse una storia del suo giorno di scuola e mio padre dicesse che la trovava interessante: mia madre, inevitabilmente, avrebbe fatto una risatina. «Che cosa c’è di tanto divertente?», mio padre avrebbe detto. «Niente, niente. Immagino che ognuno abbia la sua idea di interessante, tutto qua». O mettiamo che mio padre mi facesse notare che stavo impugnando la forchetta in modo sbagliato: mia madre avrebbe risposto che invece la tenevo nel modo giusto, o perlomeno in quello che «in certi ambienti» veniva considerato il modo giusto. «Chi siamo noi per sapere come mangia il resto del mondo?», avrebbe detto, non guardando lui, ma rivolgendosi alla credenza, alla finestra, come se quella frase non avesse nulla a che fare con nessuno di noi. Ma quella sera non ero in vena di discussioni, così dissi a mio padre per chi avevo votato. «La mamma ha fatto scegliere me», spiegai. «E io ho scelto Nixon». «Beh, almeno in famiglia qualcuno con po’ di cervello ce lo abbiamo». Mio padre mi diede una pacca sulla spalla, mia madre distolse lo sguardo e in quel preciso istante seppi di aver fatto la scelta sbagliata. Il mio secondo voto fu nel 1976, ma stavolta avevo 19 anni ed ero iscritto alle liste elettorali. Essendo un universitario fuori sede, potevo votare per posta. La scelta, quell’anno, era tra Jimmy Carter e Gerald Ford. Quasi tutti i miei amici votavano Carter ma, da bravo studente d’arte, mi consideravo un cane sciolto. «Che vuol dire un originale», spiegai al mio compagno di dormitorio, «qualcuno che se ne frega delle conseguenze». Poiché decidevo io le mie regole, e non ascoltavo l’opinione altrui, decisi di scrivere nella mia scheda il nome di Jerry Brown, un democratico già sconfitto alle primarie, ma di cui si diceva che amasse fumare l’erba. E questo era un tema a me molto caro: tanto caro che mi convinse a sprecare il mio voto. L’esperienza, però mi insegnò una lezione preziosa: farti passare per cane sciolto è un segno sicuro che non lo sei. Mi chiedo se in fin dei conti gli indecisi non siano i più inguaribili pessimisti. Potrebbero ordinare il vassoio con il pollo. «Ma in realtà», si chiedono, dubbiosi, «Non è come aggiungere uno step supplementare? Se tanto il pollo è destinato a essere masticato e ingoiato, perché non tagliare i passaggi e andare direttamente sul piatto di merda?». Se solo non ci fosse quel vetro macinato. David Sedaris