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 2008  novembre 07 Venerdì calendario

Il Venerdì, venerdì 7 novembre Piergiorgio Odifreddi, il matematico impertinente, ha un cruccio. A 58 anni, dopo trentotto di servizio, ha lasciato la cattedra di Logica matematica all’Università di Torino, preferendo la pensione e il mestiere di divulgatore a tempo pieno

Il Venerdì, venerdì 7 novembre Piergiorgio Odifreddi, il matematico impertinente, ha un cruccio. A 58 anni, dopo trentotto di servizio, ha lasciato la cattedra di Logica matematica all’Università di Torino, preferendo la pensione e il mestiere di divulgatore a tempo pieno. «Ora, prima che sia bandito un concorso per sostituirmi, ci vorranno anni: dovranno andare in congedo altri quattro colleghi e non è detto che quel posto sarà assegnato alla mia disciplina. E neanche al mio dipartimento». il blocco del turn over, deciso in parte dai precedenti governi e aggravato da Tremonti & Gelmini. «Ma attenzione» avverte Odifreddi, «la legge è devastante. Però difendere l’Università italiana, così come è oggi, è difficile». Perché, professore? «Per il meccanismo di reclutamento dei docenti, non ancora trasparente nonostante anni di riforme. Per i casi di nepotismo di cui apprendiamo quasi ogni giorno. Per la didattica ottocentesca». Sembra di sentire la Gelmini. «Eh no. Perché il ministro colpisce nel mucchio: non fa calare la scure solo sui cattivi, ma dice a tutti: ”Arrangiatevi”. Il problema, per il governo, è solo economico». Da dove ripartire, allora? «Si parla di referendum, ma sarà troppo poco e troppo tardi. L’aspetto tragico della vicenda è che si parla poco di riforme basilari: di piani di studio, lezioni, esami...». Però si fa un gran parlare del modello americano. Lei che negli Stati Uniti ha insegnato, che cosa ne pensa? «Ho insegnato all’Università di Cornell, nello stato di New York, che è parzialmente privata, e alla Columbia, pubblica. Ci sono dei punti di forza, certo. Innanzitutto la didattica: da noi si continuano a fare esami orali, uno stillicidio di sessioni superaffollate, mentre lì si valutano gli studenti sulla base dei paper scritti. anche un modo per favorire la mobilità internazionale dei docenti: io non avrei mai potuto insegnare all’estero, se avessi dovuto partecipare a decine di sessioni di esame». E la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni e usufruire di finanziamenti privati? « su questo punto che sono scettico. Negli Stati Uniti esiste un sistema ai piani paralleli: accanto alle università statali, spesso ottime, esistono le private. Sono costose, ma grazie alle borse di studio, che noi ignoriamo, lo studente meritevole può portare avanti gli studi. I più bravi, poi, possono lavorare in facoltà con compiti più avanzati dei nostri semplici tutor e più simili a quelli dei dottorandi. Negli atenei, inoltre, si può lavorare in biblioteca. Succede perché sono campus. A Torino si discute da anni se farne uno, ma poi si conclude sempre che mancano fondi». Funzionerebbe da noi la ricerca finanziata da privati? «Negli Stati Uniti, dove i docenti sono pagati per nove mesi e devono trovarsi finanziamenti per gli altri tre, oltre che per le ricerche di tutto l’anno, si passano settimane a scrivere proposal: proposte di progetti. Da noi è altrettanto faticoso ottenere un finanziamento europeo». Un esempio? «Tempo fa ho partecipato a un gruppo internazionale di ricerca sulla teoria della calcolabilità, che studia potenzialità e limiti dei calcolatori: un progetto dalle ricadute industriali ampie. Ricordo che il coordinatore, di Siena, era disperato: passava una quantità di tempo incredibile a compilare moduli e a scrivere rapporti. Se, poi, il finanziamento è a lungo termine, ogni anno devi produrre qualcosa. E allora parte la corsa alla pubblicazione: publish or perish, pubblica o perisci, dicono in America. Comunque, già da qualche anno il governo finanzia progetti solo se cofinanziati da altre realtà. Se lavori a discipline teoriche, i tagli colpiscono la cancelleria. Ma in altre facoltà i quattrini servono per macchinari complessi. Penso ai fisici, ai chimici, che dovranno indistriarsi per cercare fondi». I più agguerriti sembrano proprio i fisici. «In passato alcuni loro gruppi, grazie anche ai canali ”politici” di Antonio Zichichi, hanno avuto accesso privilegiato ai fondi. Ora rischiamo il ritorno alla fisica teorica: carta e matita». Sono così improduttivi come li dipinge il governo, i professori? «La questione della produttività è legata anche al fatto che da noi si fanno insieme didattica e ricerca. Io sono contrario a mescolare le due cose. C’è chi è bravissimo a insegnare e chi no, e viceversa. Il paradosso è che da noi l’avanzamento di carriera è vincolato alla ricerca, ma il solo obbligo è l’insegnamento. Nell’ex Unione Sovietica, dove ho insegnato, chi voleva poteva dedicarsi solo a una delle due cose o a un mix di entrambi, secondo le proprie attitudini. Vorrei aggiungere una cosa però». Prego. «Di tutte queste cose, nella legge non c’è traccia. solo uno spolpamento generalizzato». Come reagiranno gli atenei? «I tagli si fanno da anni, ma la reazione, ogni volta, è sempre stata di arroccamento. Esami di coscienza ne ho visti pochi, anzi: è quasi sempre seguita la corsa all’accaparramento del corso, all’apertura di nuove sedi decentrate. Doveva essere il centrosinistra a fare riforme vere». Suggerisca un provvedimento. «Introdurre un parametro, come il valore H usato negli Usa e basato sulle citazioni delle pubblicazioni, per valutare la qualità della ricerca: chi non ha un fattore H alto non accede ai corsi. E poi tagliare le sedi e i corsi di laurea inutili, alzare la qualità dei dottorati. E soprattutto, visto che tutto parte dalla crisi economica, tagliare il miliardo di euro che lo Stato spende ogni anno per l’insegnamento della religione nelle scuole. E poi più apertura all’esterno, alla gente». Cioè? «L’università fa poca divulgazione. Ci sono i festival, come quelli romani della Matematica e della Scienza, ma sono organizzati da altre realtà. Molti ex colleghi, quando dico che faccio il divulgatore, quasi mi guardano storto». I polici sono più aperti? «L’unico ministro che abbia incontrato è stato Mussi. Sembrava interessato ed entusiasta, poi si è rivelato poco efficiente anche lui».  una protesta politica questa? « una grande arrabbiatura. La politica dominava nel ”68: quando andai dal preside del mio liceo a Cuneo, uno del Partito socialista di unità proletaria, a dirgli che volevamo fare assemblea, rispose: ”Era ora”». Che cosa accadrà ora? «Che i tagli strangoleranno la scuola pubblica. Ho solo un dubbio: se il governo sia in buona fede o no. Se, cioè, il concetto è ”arrangiatevi” o se ”distruggetevi da soli”. La prova del fuoco verrà dai fondi alle scuole private: se taglieranno anche quelli, vorrà dire che si tratta di emergenza economica. Altrimenti, che è in atto un piano per distruggere solo la scuola pubblica». Paolo Casicci