Michele Smargiassi, la Repubblica 7/11/2008, pagina 41, 7 novembre 2008
la Repubblica, venerdì 7 novembre Monte Isola (Brescia). Se esistesse una rete che trattiene le persone, che impedisce a un paese di svanire, Fiorello Turla l´avrebbe già fabbricata
la Repubblica, venerdì 7 novembre Monte Isola (Brescia). Se esistesse una rete che trattiene le persone, che impedisce a un paese di svanire, Fiorello Turla l´avrebbe già fabbricata. Reti, lui ne fa di ogni genere: da tennis pallavolo ping-pong basket e naturalmente da calcio (la serie A insacca nel lavoro di Turla), per funghi, per amache, di cotone ecru per borsette da signora, da recinzione, per acchiappare sciatori imprudenti e operai che cadono dai ponteggi. Solo le reti da pesca, Turla non le fa. Un paradosso, perché fino a quarant´anni fa metà dei pescherecci italiani calavano reti fatte qui a Monte Isola, perimetro nove chilometri, un cocuzzolo e poche case in mezzo al lago d´Iseo. Ma negli anni Settanta, quando le fibre naturali lasciarono il posto a nylon e polipropilene, cinesi e indiani si presero il mercato mondiale, e per Monte Isola fu la fine di un paesaggio sociale che durava dai tempi di Carlo Magno. Quello delle foto seppiate nel piccolo museo che Turla ha radunato con rimpianto in un vecchio magazzino: vecchie e bimbe che intrecciano sui gradini delle case, sulle banchine del molo, sulle murate dei naèt, le barche manzoniane: «non c´era famiglia che non vivesse di reti». Oggi l´azienda di Turla, battezzata orgogliosamente La Rete, e le poche altre cocciutamente superstiti impiegano poche decine di persone. Nove isolani su dieci lavorano in terraferma. All´alba i traghetti che salpano da Peschiera Maraglio sono stracolmi, c´è fila all´imbarco, sciarpe nella brezza lacustre, borsone sottobraccio per metterci, al ritorno, la spesa. Più che pendolari, sembrano emigranti a ore. Così, di giorno, l´isola è semideserta, il silenzio rotto solo dal ronzio insistente dei motorini, unici veicoli a motore autorizzati a circolare nella «più grande isola lacustre d´Europa». Scippata della sua identità dalla globalizzazione, Monte Isola ronza come un calabrone che sbatte contro il vetro cercando una via d´uscita. Monte Isola non se ne rende conto, ma ha tutte le caratteristiche per essere uno dei 1650 comuni italiani «a rischio estinzione» entro il 2016, secondo le previsioni del Cresme. Oltre un quinto degli 8.101 comuni italiani, dice il Rapporto sull´Italia del disagio insediativo di Confcommercio e Legambiente, è candidato a diventare ghost town, un paese fantasma. Nel numero ci sono comuni già agonizzanti: contrade del Sud e paeselli alpini dissanguati d´uomini, borghi dove il collasso socio-demografico è avanzatissimo, dove non c´è più scuola né farmacia né bar né ufficio postale, dove non nascono più bambini. il piccolo mondo antico che si disintegra scendendo sotto alcune soglie fatidiche: densità demografica inferiore di oltre 8 volte a quella nazionale, più di tre anziani over-60 per ogni under-14, prevalenza di redditi da pensione, una casa vuota su due. Sono le Fontamare d´Italia, condannate senza scampo. Ma ci sono anche, tra i candidati alla fantasmizzazione, paesi ancora popolosi, ricchi, non fatiscenti. Il virus letale non li aggredisce nell´economia, ma nell´identità. La loro è una crisi urbanistico-esistenziale. Monte Isola non è un paese sperduto, sta a un´ora e mezza d´auto da Milano. Non è un paese povero: case antiche ma ben restaurate. Pensioni e stipendi regolari in tutte le famiglie: perse le reti, i montisolani son diventati muratori, piccole imprese di tre-quattro persone, la mattina traghettano, prendono il furgone parcheggiato sull´altra sponda, a Sulzano, e partono per le città. Due sportelli bancari, una farmacia, una biblioteca, un presidio sanitario per 1876 abitanti sono un buon livello di servizi. Anche la scuola c´è, intera, dalla materna alle medie; però scopri che ha in tutto 188 iscritti, il 10% esatto della popolazione, soglia d´allarme per il Cresme; e quest´anno s´è faticato a mettere assieme la prima elementare: otto alunni. Giù a Peschiera la materna ha più finestre che bambini; nel capoluogo, Siviano, sono una ventina «ma mettendo assieme tutti, dai due anni e mezzo ai cinque», dice Teresa, la maestra: «è faticoso fare i genitori qui». Sul muretto della parrocchia c´è un cartello oggi sposi, saranno forestieri che vengono a celebrare qui per il panorama. Nozze isolane, nel 2007, solo quattro. «I ragazzi che si fidanzano fuori dall´isola, si sposano e restano là», spiega Turla, «bisogna esserci nati, per rimanere qui». Bisogna esserci nati: te lo senti ripetere da tutti. Anche dal sindaco, Angelo Colosio: « l´affetto per il luogo a tenere ancora insieme la comunità». Finora ha funzionato: con la crisi della rete l´isola perse un 15-20% di abitanti, ma da un decennio è stabile. «Non siamo in crisi. Ma basta pochissimo. Se il senso d´appartenenza cedesse, ci troveremmo dimezzati in pochi anni». Quel pochissimo è la cosa impalpabile che si chiama soglia del benessere, qualità della vita, comodità. Montisola è un posto splendido, se sei un villeggiante o un pensionato: zero traffico, belle casette con logge, portici ad archi, angoli incantevoli di lungolago che sedussero George Sand e Chopin. La chiamavano «la Capri del Nord». Ma se devi fare spese che non siano pane, latte e insalata devi arrivare fino a Iseo, il market di Siviano che si pretende super serve per i bisogni minimi, e neppure gli ambulanti vengono più con le bancarelle. Per i ragazzi non c´è un cinema, né un pub, a Menzino c´è un bar con i giochi elettronici e basta. Eppure il traghetto ci mette quattro minuti: se questa è un´isola non è colpa di un braccio di lago, ma di un´altra barriera, quella che svuota la provincia italiana. La concorrenza del viver meglio nell´orbita delle città, la carenza di "connessione" continua e immediata col mondo. Questione di dimensioni, di "massa critica" della comunità, più che di distanze. Sopravviverà solo chi ritroverà un senso per esistere. Darwinismo geografico? «Non bisogna avere nostalgie da presepio», concede Alberto Fiorillo di Legambiente, che sulla disperata lotta dei micro-comuni per resistere sta scrivendo un libro, «ma perdere centinaia di piccoli centri ci costerà caro. L´urbanizzazione ha costi pesanti, la popolazione diffusa costa meno e tutela il territorio». Ma chi ha detto che i paesi debbano essere eterni? Da sempre ne muoiono e non c´è da piangere, lo diceva già Dante citando la scomparsa di Luni e Urbisaglia: «non ti parrà cosa nova né forte / poscia che le città termine hanno... ». Ma davvero non perdiamo nulla, se scompaiono milleseicento paesini? «L´edera sulle rovine può anche essere pittoresca», provoca Sandro Polci, ricercatore del Cresme, «tutto dipende da come avviene la selezione. Se è razionale non perdiamo nulla, se è casuale perdiamo un tesoro». Inutile tentare di salvare luoghi ormai privi di identità, in cui è troppo costoso garantire standard di vita accettabili, «la nostalgia non è una terapia», meglio concentrare le risorse su quelli che hanno ancora un barlume di vocazione da spendere. «Ma il punto è proprio questo», scuote il capo Silvano Novali, maître del piccolo delizioso hotel-ristorante Foresta, sul bordo dell´acqua, «Monte Isola che vocazione ha? Dopo 35 anni di lavoro, non l´ho capito. Ma non sopravvive una comunità senza un´idea che la leghi ai luoghi. Noi potremmo diventare un paradiso dei turisti, ma pare che nessuno lo voglia. D´estate sbarcano a botte di sei, settemila al giorno, ma a sera se ne vanno, non ne tratteniamo quasi nessuno, sembra che ci stiano antipatici, nessuno apre un´attività per loro, un negozietto tipico, e per strada i ragazzi gli fanno il pelo col motorino». Si sente parlare inglese e tedesco al baretto sul molo che offre solo panini standard. Lo storico Ristorante del Pesce ha chiuso l´anno scorso, appena festeggiato un secolo tondo. Cartelli «Uno dei borghi più belli d´Italia» sono ovunque, ma l´ufficio del turismo è chiuso. Cerchi una guida dell´isola: l´edicola ne vende una aggiornata a diciotto anni fa. Per le stradine neanche un volto colorato: immigrazione zero e non è un buon segno, gli extracomunitari vanno dove c´è lavoro e benessere. Mancano anche altre figure essenziali. «Il parroco non c´è!» s´indigna la signora Virginia mentre lucida il già scintillante pavimento della chiesa di San Michele a Peschiera, «è da un anno che ce l´hanno portato via e non ce ne mandano un altro, il vescovo dice che non ha preti, ma noi quattro gliene abbiamo dati di preti alla diocesi, e anche quelli ci hanno portato via! E la parrocchia affonda!». Ora dalla terraferma viene don Stefano, solo il sabato e la domenica, a dir messe e a confessare. Brutto segno quando un posto, prima che dagli uomini, comincia a essere dimenticato da Dio. Michele Smargiassi