Marco Ansaldo, La Stampa 7/11/2008, 7 novembre 2008
Come la maggior parte di noi, Alessandro Del Piero mise per la prima volta il piede in uno stadio accompagnato da suo padre, che è morto qualche anno fa e lui gli dedicò un gol bellissimo
Come la maggior parte di noi, Alessandro Del Piero mise per la prima volta il piede in uno stadio accompagnato da suo padre, che è morto qualche anno fa e lui gli dedicò un gol bellissimo. Per chi ama il calcio quello è il momento in cui tutto comincia. Forse perché per la prima volta ci si sente grandi, anche quando si è bambini, e si divide qualcosa con l’uomo che più di ogni altro si vorrebbe imitare. Poi diventa una ”routine”, una passione. Nel caso di Alex frequentare gli stadi è diventato un lavoro, con la scommessa di lasciare ad ogni passaggio qualcosa di indelebile. Mercoledì sera gli è successo al ”Santiago Bernabeu” di Madrid, un teatro come fu il Metropolitan per Caruso o il Bolshoj per ogni grande ballerino. Un tempio da cui uscire consacrati, anche se a 34 anni il tempo delle consacrazioni è alle spalle. Del Piero li ha tutti nella testa gli stadi della sua vita: in 573 partite con la Juve ce ne sono stati di minuscoli in provincia e altri in cui è passata la storia del costume degli ultimi 15 anni, non soltanto del calcio. Berlino, i fuochi d’artificio e i coriandoli sull’Italia campione del mondo. L’Old Trafford a Manchester e l’Anfield a Liverpool, dove ti prende un groppo alla gola quando si alzano i cori appassionati. Gli stadi greci che esplodono di passione, quelli giapponesi in cui il tifo è un sottofondo sempre uguale come se soffiasse il vento. E quella volta a Istanbul, in casa del Galatasaray, che c’era tanta polizia come non se ne è mai vista perché i turchi pretendevano dagli italiani la restituzione del curdo Ocalan, per loro un terrorista. Forse un giorno Del Piero si deciderà a raccontarli in un libro che sembrerà un romanzo di avventura. Dedicherà un capitolo alla serata incredibile di Madrid. «L’inchino al pubblico? - dice - Giuro che non l’avevo studiato. E’ successo all’improvviso: vedo che Ranieri prepara un cambio e gli chiedo di uscire perché 5 minuti prima avevo preso una botta al tendine, mi tolgo dal braccio la fascia e sento il pubblico che comincia ad applaudirmi. Ho camminato per venti metri a una spanna da terra per quell’omaggio, mi è venuto spontaneo inchinarmi a ringraziare come fanno gli attori perché il ”Bernabeu” è un grande teatro, il più grande del calcio. Quando ci stai dentro percepisci che ci è passata la storia». Alessandro Del Piero raccoglie le emozioni. Perché si può essere adulti e vaccinati, e persino padri di famiglia, ma non si diventa impermeabili a tutto. Cerca di mantenere il basso profilo. Ci riesce solo un po’. Non è la prima volta che a Madrid si applaude un avversario, «qui la gente ama il Real ma ama soprattutto il calcio e chi lo interpreta al meglio, qualunque maglietta indossi», spiega Ranieri tuttavia i precedenti si contano sulle dita di una mano: Cruyff, Maradona, Ronaldinho. Giocavano nel Barcellona e l’ovazione suonò quasi come uno schiaffo ai calciatori del Real. «Me ne sono pentito, fu un gesto un po’ eccessivo», si è scusato Juan Sanchez, il signore da cui partì l’applauso a Ronaldinho il 19 novembre del 2005. L’ovazione per Alex è stata più spontanea e rispettosa, non è sembrato un modo per far dispetto alla suocera. «Lui è un simbolo del calcio mondiale, è giusto apprezzarlo per il campione che è, non per la maglia che porta», ha spiegato l’argentino Saviola e Tomas Roncero, un commentatore del giornale ”As”, ha scritto che «gli anni ci sono ma questo italiano è degno di un Pallone d’Oro ad honorem». Come si assegnano gli Oscar alla carriera. «Bell’idea - ribatte Del Piero, ridendo - però si sbrighino prima che diventi troppo vecchio». Il ”Bernabeu” entra nella sua storia personale. «Ci avevo sempre perso - ha raccontato nel rientro a Torino - e mi sarebbe bastato uscirne con la vittoria. Ci sono riuscito e ho segnato due gol, uno ancora su punizione ed è stata la mia risposta a chi, alla vigilia, mi chiedeva se avessi altri modi di batterle, dopo le reti allo Zenit, al Palermo e alla Roma. Casillas si è preso la colpa di aver piazzato male la barriera. Non credo che sia andata così. Se ha commesso un errore è stato di muoversi in anticipo verso l’altro palo, probabilmente pensava che tirassi lì». «Questa serata - insiste Del Piero - resterà tra le migliori della mia vita e non dimenticherò mai il regalo che mi ha fatto il pubblico con la sua ovazione». Mette insieme i ricordi. Altre fotografie, altri stadi. Ne sceglie tre. «L’Old Trafford di Manchester, la prima volta che ci andai: vincemmo con un mio rigore e quando ci sono tornato l’estate scorsa per un’amichevole ho avuto anche lì una ”standing ovation”, che mi sembra il massimo riconoscimento che si possa avere, un grande esempio di sportività». Agli amici ha confidato che vorrebbe vedere i tifosi della Juve fare altrettanto. Poi l’Olimpico di Tokyo per la coppa Intercontinentale contro il River Plate . «Vinsi un’automobile come miglior giocatore della partita. Che ne ho fatto? Pensavo di tornare in Italia guidandola, invece l’ho venduta e il ricavato l’ho speso in regali ai miei compagni». Terzo scenario. «Dortmund: la mia prima trasferta e il mio primo gol in Champions League. Avevo 20 anni. Feci il 2-1 con uno di quei tiri a giro. Ma è soprattutto la città dove ho segnato nella semifinale dei Mondiali, nella partita più bella di tutto il torneo. L’Olimpico di Berlino mi è nel cuore però è a Dortmund che ho lasciato il mio segno». Nel futuro ci sono altri stadi, in una carriera che non vuole chiudersi. «Bisogna sempre porsi degli obiettivi - aggiunge Alex - mercoledì se ne sono realizzati alcuni, me ne rimangono di nuovi. Sono sereno, mi sento un uomo diverso rispetto al passato: il carattere è sempre quello ma le lezioni che si ricevono dalla vita aiutano a trovare le reazioni giuste». Anche negli stadi. Improvvisando un inchino.