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 2008  novembre 07 Venerdì calendario

AYYAN HIRSI PER IL CORRIERE DELLA SERA DEL 7 NOVEMBRE 2008


Nel ruolo di presidente degli Stati Uniti, Barack Obama vivrà inizialmente una luna di miele con il mondo musulmano: un prosieguo, in realtà, della luna di miele di cui ha già goduto come uomo di colore asceso ai vertici del potere nella più potente nazione del mondo, l’America.
Eppure, Obama si proclama determinato a stanare e uccidere Osama bin Laden. Ha dichiarato che il fronte della guerra al terrorismo si trova ormai in Afghanistan, punto caldo della jihad sin dagli anni ’70 del secolo scorso, dove intende inviare più truppe. In altre parole, egli darà seguito alla politica adottata da Bush, solo con maggior competenza.
Nel giro di breve tempo, il rafforzamento della presenza Usa e i danni collaterali che ne deriverebbero in Afghanistan e nell’intera regione, porrebbero fine alla luna di miele di Obama. Un simile scenario ricorderebbe ai fondamentalisti islamici e ai loro sostenitori in tutto il mondo musulmano che Obama non vuol prestare la propria solidarietà ai popoli in virtù del colore della sua pelle o delle radici keniote, bensì da comandante in capo che tutela gli interessi nazionali dell’America più di ogni altra cosa.
In conseguenza di tutto ciò, gran parte della sua popolarità svanirebbe. O potrebbe addirittura precipitare ai livelli di George W. Bush. Sono sicura che molti si convincerebbero che Obama li ha traditi.
Barack Obama ha anche criticato Bush per «non aver dialogato con il nemico », con particolare riferimento all’ Iran. Così, il mondo si aspetta che Obama osservi tutti i canoni diplomatici e segua ogni procedura atta a convincere il presidente Mahmoud Ahmadinejad e le autorità iraniane ad abbandonare il progetto di sviluppo della bomba atomica. Qualora l’Iran rifiutasse di rinunciare alla bomba, a dispetto dei caldi e ripetuti inviti del nuovo presidente americano, tuttavia, Obama si vedrebbe costretto ad agire. Così, dopo aver dialogato con l’Iran, si ritroverebbe probabilmente nella stessa situazione di Bush. Il che non gli darebbe grande popolarità in Iran, né tra quanti si oppongono al ricorso dell’America alla forza militare.
Allo stesso tempo, la campagna di Obama ha avuto il suo punto di forza iniziale nella promessa del ritiro dall’ Iraq entro 16 mesi dalla vittoria. Vi sono ben pochi dubbi che, se davvero Obama prestasse fede alla sua promessa, i jihadisti in Iraq e in tutto il mondo, che leggono la Storia nei termini «millenaristici» di una lunga battaglia contro i crociati, si sentirebbero i vincitori.
Nel graduale dispiegarsi della sua campagna elettorale, Obama ha voluto sottolineare che il suo ritiro avverrà in modo «responsabile». Un aggettivo che, ovviamente, si presta a infinite interpretazioni. Personalmente, non credo sia responsabile ritirarsi dall’Iraq nel giro di 16 mesi; salvo desiderare che i jihadisti si abbandonino a danze di giubilo. Il messaggio che un dietrofront così precipitoso recapiterebbe ai jihadisti suona identico a quello lanciato dal premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero allorché, dopo la vittoria alle elezioni nel marzo 2004, ritirò in tutta fretta le forze nazionali dalla coalizione in Iraq: se sarete abbastanza perseveranti, l’Occidente fuggirà a gambe levate.
Più importante di tutti, però, è il consenso maturato nel corso della campagna elettorale sull’idea che gli Usa debbano por fine, nel giro di un decennio, alla dipendenza energetica dal Medio Oriente. Il che solleva pesanti interrogativi sul futuro dell’ordine mondiale liberale. Quando l’America darà corso a quel ritiro strategico dal Medio Oriente, lascerà l’intera regione in preda ai cinesi, affamati di risorse energetiche, e alla Russia. Costoro, diversamente dagli Stati Uniti, non tengono granché a democrazia, diritti umani, confini o frontiere. E saranno più che disposti a scendere a patti anche con i regimi islamisti più repressivi, purché il petrolio continui ad affluire ai loro rubinetti, o a scorrere nei propri oleodotti.
Può ben darsi che l’America riesca, così facendo, a mettere fine ai suoi conflitti in Medio Oriente. Ma saranno le popolazioni della regione, e le donne in particolare, a pagarne il prezzo.
5 Global Viewpoint traduzione di Enrico Del Sero

LUCIO CARACCIOLO PER LA REPUBBLICA DEL 7 NOVEMBRE 2008
Barack Obama è il presidente del mondo. Non nel senso, pessimo e impossibile, dell´imperatore di noi tutti. Ma in quello, realistico e positivo, dell´uomo che la stragrande maggioranza dell´umanità avrebbe voluto alla guida del più importante paese del mondo. Nelle elezioni planetarie virtuali via Internet, Obama è stato plebiscitato dappertutto: dalla Francia (94,5%) alla Cina (88%), dalla Germania (92,5%) all´India (97%), dalla Russia (88%) all´Iran (80%), per finire con il trionfo in Italia (92%). Miliardi di persone hanno soffiato nelle vele della barca di Obama. Gli americani lo sapevano, anzi lo sentivano. Come affermava Thomas Jefferson, americanizzando il cogito cartesiano: "I feel, therefore I am" – "sento dunque sono". I connazionali di Obama devono averlo sentito quel vento ben dentro la loro pelle, fino all´altro ieri piuttosto impermeabile alle opinioni di chi vivesse fuori dell´immenso, benedetto poligono a stelle e strisce. Fino a quando appunto, sette anni fa, furono tragicamente risvegliati dall´illusione di aver bandito per sempre il Male dal mondo. Bush volle esorcizzare l´incubo scatenando il suo formidabile apparato della forza a caccia di mostri lontani. Con l´idea di tenerli a debita distanza dalle case americane, inchiodandoli nelle loro terre come si spera che gli insetti nocivi s´incollino alla carta moschicida. Certo, l´11 settembre non si è ripetuto. Ma il prezzo per la svolta militarista e securitaria non è espresso solo dalla voragine nei conti pubblici e privati, quanto soprattutto dalla drastica caduta d´immagine dell´America nel mondo. E dunque da una corrosiva crisi di autostima. Da cui solo dopo la magica notte del 4 novembre gli americani cominciano a riprendersi.
Se Obama ha vinto, è anche perché gli americani hanno ascoltato le voci del mondo. Non per corrività o per vocazione internazionalista. Per sano spirito di conservazione. Per egoismo. Perché hanno capito che la sicurezza degli Stati Uniti è protetta dalla simpatia o almeno dal rispetto altrui meglio che da qualsiasi barriera. Quanto più Bush erigeva muri fisici e virtuali a protezione del territorio nazionale, mentre scatenava le campagne d´Afghanistan e d´Iraq senza fissarne limiti e traguardi, tanto più molti americani si sentivano paradossalmente meno protetti. Ci sono voluti anni, ma la maggioranza dei cittadini statunitensi ha capito che il loro governo li aveva ficcati in un vicolo cieco. Al termine del quale non c´era solo l´umiliazione dei soldati - migliaia dei quali hanno pagato con la vita - ma la perdita di fiducia del mondo nell´America. E alla lunga, degli americani in loro stessi.
L´ultimo crollo, quello del Muro di Manhattan, non è stato che il riflesso finanziario della crisi di credibilità degli Stati Uniti. Senza fiducia non c´è finanza che tenga. E prima o poi il morbo traligna nell´economia, mina l´ordine sociale, ferisce lo smisurato orgoglio nazionale di un paese che venera come una Chiesa la patria e i suoi simboli.
L´America ha ascoltato il mondo. Presto il mondo ascolterà la nuova America di Obama. Inevitabilmente, una buona quota di coloro che oggi inneggiano al leader nero resteranno delusi. Non solo perché sono troppi, e nemmeno Superman potrebbe servire i loro contrastanti interessi. Ma perché Barack Obama, innalzato alla Casa Bianca anche grazie al resto del mondo, deve preoccuparsi anzitutto del suo popolo. In questo senso no, non è il capo della Terra. Deve corrispondere alle attese dei suoi elettori effettivi, dai quali ambirà ad essere riconfermato fra quattro anni. Non avrà tempo né forze per quelle dei suoi supporter elettronici sparsi nel pianeta. Di più: i suoi elettori reali pretendono che rimetta subito ordine nella casa devastata dalle politiche di Bush. L´economia domestica, anzitutto. Il resto può attendere.
Obama avrà bisogno di ogni risorsa disponibile, a cominciare da quelle degli "alleati e amici", per raddrizzare la corazzata a stelle e strisce, pericolosamente inclinata su un fianco. Sul fronte internazionale, vuol dire più soldi e più soldati atlantici - italiani inclusi - a combattere con gli americani nelle guerre del dopo-11 settembre. A partire dall´Afghanistan, dove probabilmente Obama tenterà di riprodurre l´"effetto Petraeus": rinforzi sul terreno e trattative con i "taliban buoni" e altri tagliagole per evitare una sconfitta che Stati Uniti e Nato non possono permettersi.
Certo, dall´autismo geopolitico di Bush e Cheney, Obama e Biden vorranno passare a un "multilateralismo" d´impronta americana. Con il prestigio e l´irradiamento simbolico di cui nessun altro presidente degli Stati Uniti ha mai goduto, il nuovo leader cercherà risorse altrui per servire gli interessi del suo paese. Se poi tali interessi coincideranno con quelli degli amici, tanto meglio. Se no, tanto peggio per gli altri. Anche per chi oggi stravede per lui, o finge di farlo.
Il presidente eletto sta per ereditare un paese malato. Solo un senso di disperazione spiega come una notevole parte dei conservatori abbia votato per un presidente sospettato di pericolose inclinazioni sinistrorse, quando non di aver flirtato con gli estremisti. Obama era davvero l´ultima speranza dell´America. Non può permettersi di disperderla. La sua gente, tutta, non glielo perdonerebbe. E´ il destino dei grandi visionari, che suscitano aspettative formidabili. Alcuni di loro diventano anche grandi leader. Calibrando utopia e realismo, producendo fatti ed esaltandoli con il tocco carismatico dei re taumaturghi. Se ci riuscirà, Obama non sarà solo un eroe nazionale. Si confermerà quell´icona planetaria che è già diventato nei cuori degli amici dell´America, e forse anche di alcuni nemici.