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 2008  novembre 07 Venerdì calendario

PRIMA DI METTERLO SUL FOGLIO PRENDIAMO L’INTERVISTA INTEGRALE DAL LIBRO PREFATO DA RAMPINI

Aprile 1973, Oriana Fallaci sale al Quirinale per intervistare Giovanni Leone, il primo (e unico) presidente della Repubblica eletto con i voti missini. I due non si conoscono. La grande inviata di guerra e il politico controverso; la giornalista grintosa e «cattiva», che qualche anno dopo avrebbe sfidato l’imam Khomeini lasciando scivolare il velo che aveva sulla testa nella foga dell’intervista, di fronte all’uomo che faceva le corna agli studenti che lo contestavano e avrebbe poi finito il settennato nella bufera dei sospetti per lo scandalo Lockheed (nel quale non fu però mai davvero implicato). A sorpresa Oriana depone l’elmetto e cede alla cordialità di quest’avvocato napoletano che fa sfoggio di galanterie e professione di inflessibile antifascismo. L’intervista fu pubblicata dal Corriere della Sera e suscitò le ire dei deputati missini. Curiosamente non fu inserita nelle prime edizioni di Interviste con la storia. Il volume (pp. 880, e14) viene ora ripubblicato dalla Bur con la prefazione di Federico Rampini e contiene anche l’intervista a Leone. Dal testo della Fallaci anticipiamo il ritratto del Presidente e due stralci tratti dalle risposte del Capo dello Stato.

Ero andata da lui col peso di mille rabbie e di mille amarezze, quest’Italia che si disintegra nell’irresponsabilità, nella mancanza di serietà, nella violenza, nel fascismo che sempre riaffiora, magari per mascherarsi in colori diversi oltre al nero, ed era la prima volta che lo incontravo. Non gli avevo mai stretto la mano. Anzi, non lo avevo mai visto da vicino. Neppure in tribunale quando faceva l’avvocato o alla Camera quando la presiedeva. Di lui conoscevo soltanto la biografia, i giudizi che ne danno gli altri, l’immagine affettuosa di babbo pronto a perdonartele tutte. E lo guardavo con il distacco che suscita una suprema autorità cui devi reverenze, lusinghe, il timor di finire in galera se gli manchi di rispetto.
Così, ora che ce l’avevo davanti, mi chiedevo incredula perché mi piacesse. Il sorriso indulgente, bonario? Gli occhietti teneri, maliziosi? L’assenza di ogni presunzione? Sì, forse era questo. Sembrava ancora stordito dal fatto di abitare in quel Quirinale gonfio di specchi, arazzi, lampadari, stucchi, elaborati parquet dove i passi rintronano in un silenzio di ghiaccio. E, seduto dietro la grande scrivania ottocentesca, laggiù in fondo al salone che gli serve da ufficio, reso ancora più piccolo da tanto spazio inutile e sfarzoso, aveva l’aria di dire: «Figlia mia, hai visto che guaio m’è capitato? Se tu sapessi che problema è per me tale altissimo onore!». Poi, quasi a implorar perdono per essere giunto lassù, mi trattava quale un vecchissimo amico, «Ci prendiamo un caffettino? Ben stretto?», e lasciava che lo crocifiggessi col peso di mille rabbie, di mille amarezze.
Io sapevo di fare una cosa crudele. Lo vedevo. Alle mie domande vibrava, impercettibilmente, come se gli infilassi un ago nel cuore. Però mi rispondeva lo stesso: pacato, sereno. Non si sottraeva con le ipocrisie, le furbizie che impari in politica e in avvocatura. Non si difendeva nemmeno dietro il suo diritto a tacere se vuole. E d’un tratto pensai: «Mi piace perché mi sembra un brav’uomo. Almeno con lui, direi che c’è andata bene».
 anche intelligente. D’una intelligenza libera come un gabbiano, miracolosamente scampata alle insidie dei dogmi e del potere. Il fatto d’esser cattolico osservante non l’ha ammanettato: ripete spesso la parola laico e l’impegno di dare a Cesare quel che è di Cesare, alla Chiesa quel che è della Chiesa. Il fatto d’esser sempre stato in cima alla piramide non l’ha accecato: ripete ancor più spesso che la vita gli ha dato più di quanto aspettasse. La dote maggiore di tale intelligenza è l’equilibrio misto a un’intuizione fulminea, pressoché stregonesca. Accenni a un problema e subito, come un gabbiano che ha scorto il pesce, lui si tuffa e lo agguanta e risale per regalartelo sezionato o già digerito. Senza vantarsi, senza lasciarti capire che ha capito prima di te. Anche umanamente è ricco di finezze sottili, eleganze impalpabili. Non a caso detesta i fiori tagliati: «Mi piacciono vivi sulla pianta. Specialmente le rose». Non a caso adora le donne: «Una bella donna è il più forte argomento per arrivare all’esistenza di Dio». Non a caso è capace di soffrire su ciò che non va e ignora il cinismo.
In fondo è un personaggio ottocentesco. Sai, l’Ottocento napoletano coi suoi romanticismi, le sue eccessive sensibilità. D’esser napoletano, infatti, non se ne scorda mai. Né te lo fa scordare mai. Chi ci riuscirebbe ad ascoltar quell’accento pieno di consonanti raddoppiate, pastasciutta al pomodoro, chitarre a Mergellina? Cita Napoli a ogni pretesto, Kennedy lo conquistò scrivendogli «Viva Napoli!», con l’esclamativo. E se ciò ricorda che l’Italia è un mosaico incollato di fresco, al tempo stesso denuncia una bella sincerità. Io credo che nasca di lì il suo calore a braccia aperte. O da un inconfessato bisogno di piacere ed essere amato?
Come in molti meridionali, avverti in lui una selva di passioni represse, malinconie solitarie, vulnerabilità. Racconta che da piccolo aveva bisogno dell’incoraggiamento paterno per buttarsi avanti: «Ma va’ che ci riesci, che sei un ragazzo d’ingegno!». Da solo si sentiva frenato da una quantità di complessi, incertezze, timori. Al successo arrivò suo malgrado e, se non sbaglio, scoprì se stesso verso i quarant’anni: quando lesse le lettere dei condannati a morte della Resistenza. ciò che gli inglesi definirebbero «a late-blossomed tree», un albero fiorito tardi. Pazienza. O tanto meglio. I bambini prodigio si esauriscono presto e gli alberi fioriti tardi hanno una giovinezza più lunga. A noi serve che rimanga giovane a lungo, visto che afferma di voler difendere bene questa nostra Repubblica che ci è costata sangue e fatica e dolore ma che qualcuno vorrebbe farci a pezzi.