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 2008  novembre 06 Giovedì calendario

MASSIMO GAGGI PER IL CORRIERE DELLA SERA

Smaltita l’eccitazione di una notte che ha cambiato la sua storia, l’America si è svegliata stamani in una nuova era: quella della Grande Sobrietà obamiana. Sobrio nel vestire, nel mangiare, nello stile di vita familiare, nella mimica, nel modo di porsi coi suoi interlocutori, Barack Obama passa per un freddo calcolatore che si è imposto un livello estremo di autocontrollo come precondizione della sua corsa alla vetta della politica nazionale. Uno strumento che ha imparato a maneggiare con perizia e che ora gli servirà per rimettere ordine nel suo caotico partito, nei rapporti col Congresso, nel dialogo con la minoranza repubblicana.
Ma anche uno stile personale che, forte del suo carisma, cercherà di trasferire nel comportamento quotidiano degli americani: sobrietà sarà il presupposto, se non la parola d’ordine, della sua politica di risparmio energetico e di sviluppo di fonti alternative. Ma sarà anche l’atteggiamento suggerito a un popolo che, reduce da anni di sbornia consumistica e di indebitamento elevatissimo, sta cominciando a vivere il clima angoscioso della recessione. Un esperimento non privo di rischi, quello del nuovo presidente: anche gli eccessi, gli sprechi, nella mentalità di molti americani – non necessariamente conservatori – sono libertà che meritano di essere difese.
A un italiano viene naturale il paragone con l’austerità berlingueriana. Ma se oggi il mondo deve fronteggiare crisi economiche ed energetiche esattamente come negli anni ’70 di Berlinguer, va però tenuto presente che la sobrietà obamiana non ha connotati ideologici e nasce in tutt’altro contesto.
Ed è un atteggiamento considerato «cool» dai giovani: può fare tendenza. A Barack non piace essere avvicinato, come fanno molti suoi ammiratori, all’immagine di George Clooney o del Sidney Poitier di «Indovina chi viene a cena?». I suoi eroi al cinema sono Spencer Tracy e Humphrey Bogart, interpreti di personaggi leali, diretti, magari tenebrosi, che non alzano mai la voce.
La sobrietà obamiana parte da un assunto di base: l’americano medio non è ostile al nero in quanto tale. Non lo spaventa il colore della pelle, ma è infastidito dalla «fisicità» degli afroamericani: il loro gesticolare, l’abbigliamento spesso esagerato, le catene d’oro, il parlare a voce alta, una diffusa tendenza all’indisciplina nella vita familiare (altissimo livello di abbandono del tetto coniugale da parte dei maschi) come in quella sociale. Nell’interpretare un personaggio speculare allo stereotipo del nero chiassoso c’è sicuramente del calcolo, ma Obama non può avere studiato a tavolino l’autodisciplina, il senso della misura che sono da decenni il suo stile di vita. Per lui la sobrietà è stata dapprima – come racconta un giornalista di Nairobi che lo ha conosciuto e che è stato amico del padre – la reazione a un genitore (lontano ma che aleggiava nella vita del giovane Barack) pirotecnico, eccessivo, dotato di un’umanità travolgente, ma anche arrogante.
Obama è tutt’altro. Cerebrale, calcolatore, dapprima ha capito che la sua naturale sobrietà, che rischia di renderlo noioso nella vita privata, poteva essergli molto utile nella costruzione di un’immagine pubblica diversa da quella di tanti leader abituati a usare il potere in modo sguaiato. Ed ha anche costruito la squadra elettorale a sua immagine e somiglianza: la «forza tranquilla» dello stratega David Axelrod, perennemente immerso in pulloveroni sbrindellati, David Plouffe, il manager campagna che ha governato una macchina estremamente complessa senza mai alzare la voce: una formazione compatta, con un forte senso di cameratismo, a differenza dei team rissosi, pieni di «primedonne» (e, quindi, andati inevitabilmente in frantumi) messi in piedi da Hillary Clinton, o quattro anni fa, da John Kerry.
Un minimalismo austero ma che piace, quello del leader democratico: l’eleganza di un pantalone scuro, una camicia candida, un mocassino liscio. Nessun «accessorio» ad eccezione del braccialetto di plastica donato dalla madre di un soldato ucciso in Iraq (usato solo dopo che McCain aveva cominciato a mostrare nei comizi quello avuto dalla madre di Mattew Stanley, un altro caduto). A tavola molti broccoli e spinaci, pochi fritti, niente mayonnaise. Poche bibite gassate: meglio l’acqua. "Unamerican" direbbe Sarah Palin. Invece ha funzionato: forse perché col suo garbo e un atteggiamento "inclusivo", Obama non ha mai demonizzato il colesterolo degli hamburger. La sobrietà è anche nemica di ogni integralismo: i suoi sentimenti in materia di ambiente non impediscono, ad esempio, a Obama di girare il Paese a bordo di grossi "suv" neri blindati, che «risparmiosi» certo non sono.
Anche i discorsi pubblici del leader nero sono diventati più asciutti, essenziali. Nei dibattiti televisivi con McCain, più che sobrio, è stato attento a non cadere in trappola: anche a costo di apparire un po’ rinunciatario, nessuna replica dura agli attacchi di un avversario che, indietro nei sondaggi, cercava di spingerlo a una reazione da "nero attaccabrighe".
Anche l’altra notte, nel prato del Grant Park, assediato da un’intera metropoli in festa, Obama non si è fatto prendere la mano dal trionfalismo: c’era il lutto per la scomparsa della nonna, certo, ma le sue parole asciutte, la faccia sofferta, scavata dalla durissima campagna, la commozione senza sorrisi, erano già un richiamo alla situazione difficile che l’America e il suo nuovo presidente dovranno fronteggiare: «Stasera abbiamo conquistato solo il diritto a tentare di realizzare il cambiamento che sognamo»