La Stampa 6/11/2008, 6 novembre 2008
L’AGENDA DEL MONDO E I 70 GIORNI DI BUSH
Il primo grande impegno internazionale dell’era del dopo Bush non sarà Obama a gestirlo ma lo stesso Bush. La prassi americana vuole infatti che un nuovo presidente eletto a novembre prenda il potere solo nel gennaio dell’anno seguente: passano così settanta spesso difficili e imbarazzanti giorni in cui tutti guardano al nuovo mentre ha il bastone di comando in mano ancora il vecchio. Si terrà tra poco negli Stati Uniti un G20 a livello di capi di Stato e di governo per un coordinamento globale sulla governance della finanza e del sistema monetario internazionale. A prescindere dal contenuto che l’incontro avrà e dalle opzioni che vi saranno presentate, qualora fosse già stato Obama ad alzare al più alto livello politico quello che sinora era stato un quadro prevalentemente tecnico, forse lo avremmo interpretato come il segno di un nuovo multilateralismo. In realtà è il frutto di una giustificata convinzione che gli interessi di tutti, e degli americani stessi in primo luogo, esigono su questo tema la più larga convergenza possibile. verosimile e auspicabile che Bush associ Obama strettamente nel predisporre la posizione degli Stati Uniti. L’iniziativa, comunque, è stata sua e sarà lui a gestirla.
Ho avuto recentemente occasione di ricordare come l’agenda della politica estera dipende non tanto dalla volontà dei governi che debbono trattarla (fosse anche quello della sola superpotenza mondiale) quanto da avvenimenti imprevedibili o dagli sviluppi di crisi preesistenti ancora irrisolte. Sono soprattutto queste ultime quelle che Obama, quando entrerà alla Casa Bianca, si troverà di fronte.
La più drammatica di queste crisi, quella che più ha influito sui sentimenti dell’opinione pubblica americana contribuendo a orientarne il voto, è quella irachena. Che le forze americane siano destinate a lasciare il Paese in un futuro che si approssima, è ormai sicuro. Obama non ha indicato date certe. Se ciò sarà nel 2010 o dopo dipenderà dagli accordi che Washington negozierà con Al Maliki. La vittoria di Obama indurrà forse il governo iracheno a maggiore flessibilità o forse anche a stringere i tempi per condurre in porto il negoziato con Bush. Ma probabilmente, a dare una spinta al ritiro della costosissima e massiccia presenza militare americana saranno anche esigenze di bilancio in un difficile momento e con un impegnativo programma fiscale e di sostegno economico che Obama si accinge a perseguire.
poi legittimo chiedersi quale influenza avrà il voto del 4 novembre sui rapporti russo americani, messi in difficoltà dalla crisi georgiana, dal sostegno dell’amministrazione Bush all’allargamento della Nato nel Caucaso e ancor più dall’installazione del sistema antimissilistico americano in Polonia. Chi si fosse aspettato una reazione di calore da parte di Mosca verso un futuro presidente di stampo potenzialmente più incline al dialogo, sarà stato sorpreso nel vedere che il presidente Medvedev ha scelto la giornata delle congratulazioni e degli auguri a Obama per lanciare un messaggio minaccioso in cui anticipa l’intenzione di installare apparati di disturbo radio sugli impianti americani. Come già in passato i russi credono che ai muscoli occorra reagire con i muscoli, quale che sia - democratico o repubblicano - il Dna dell’interlocutore. La vertenza sui missili resterà dunque per Obama, secondo ogni apparenza, un difficile banco di prova.
Sull’Iran, Obama ha parlato di disponibilità al dialogo, ma neppur questo è nuovo. Non è forse dialogo quello che si protrae ormai da tempo, senza successo, tra il gruppo cosiddetto 3 più 1 e le autorità di Teheran? Nessun’area, come questa, può infiammarsi per circostanze di cui è difficile valutare oggi la probabilità, perfino al di fuori della volontà dei protagonisti.
possibile dunque che su molti temi caldi dei rapporti tra Stati non si verifichino nell’immediato degli sviluppi clamorosi. Questo non significa però che l’elezione di Obama, che questa giornata «storica» sotto il profilo interno, come lo stesso McCain l’ha definita, non rivesta un’altrettanto storica importanza nelle relazioni internazionali. In primo luogo per la straordinaria partecipazione che le elezioni del 4 novembre hanno avuto in ogni continente e in Europa in particolare, e per il grandissimo consenso che il successo di Obama sembra riscuotere. Esso viene interpretato come il segno di un mutamento profondo, di cui si aveva bisogno in un mondo incerto e pericolante. Può essere il punto di partenza per passare da una crescente diffidenza a una rinnovata fiducia nell’America, nella sua sorprendente forza di trasformazione e nella sua capacità di esercitare il ruolo che le compete nel mondo. Se così fosse, sarà stato davvero un giorno decisivo per il nostro avvenire.