Luciano Canfora, Corriere della Sera 2/11/2008, pagina 15, 2 novembre 2008
Pugnalare un cadavere, più in generale infierire su di un cadavere è un gesto che presuppone una mentalità impregnata, in modo malsano, di religiosità in continuo commercio con «l’ ultraterreno»
Pugnalare un cadavere, più in generale infierire su di un cadavere è un gesto che presuppone una mentalità impregnata, in modo malsano, di religiosità in continuo commercio con «l’ ultraterreno». Non c’è infatti semplicemente il proposito del dileggio magari feroce verso il defunto ormai cadavere, c’è anche l’inconfessato intento di colpire lui, cioè il defunto concepito in certo qual modo come ancora «senziente». Malsana religiosità e violenza del resto non di rado vanno insieme. Difficile è, ovviamente, entrare nella testa dei pugnalatori del cadavere di Saddam di cui si ha notizia in questi giorni; certo essi hanno molteplici predecessori. Predecessori di vario genere ed orientamento. Per l’Italia basti pensare al truce trattamento inflitto dai nazisti (e dai repubblichini) al corpo dei partigiani (definiti «banditi »!) esposti in piazza nelle inquiete città della RSI da terrorizzare, ovvero alla dissennata ripicca esercitata nello stesso piazzale Loreto – dove a lungo erano rimasti impiccati i corpi di partigiani uccisi – al corpo dei gerarchi fascisti fucilati. Con intenzionale adozione della medesima piazza in cui s’erano illustrati i nazifascisti. Ma la memoria può risalire molto indietro. Alla fine del IX secolo ha luogo in Italia, in ambiente papale, la grottesca vicenda di papa Formoso, il cui cadavere viene dissotterrato, processato (il famoso «processo del cadavere »!) e condannato (897 d.C.), e però l’anno dopo riabilitato secondo uno scenario di altalenanti fortune che ha avuto anche imitatori imprevedibili. La lugubre vicenda è stata varie volte rievocata. In Roma, Formoso incorona Arnolfo quale imperatore. Poco dopo Arnolfo, tornato in Germania, muore, e Formoso si trova esposto alla vendetta degli Spoletani che volevano come imperatore Lamberto da Spoleto. Nell’aprile dell’896 morì lo stesso Formoso, ed il successore di lui, Stefano VI convocò addirittura un concilio per punire il defunto papa che era sottoterra da un pezzo. Il cadavere fu portato nel bel mezzo della Basilica Lateranense e sottoposto a un solenne giudizio, dopo essere stato rivestito da pontefice. Al termine del processo – nel quale non potè, evidentemente, difendersi – Formoso fu proclamato «pontefice illegittimo e indegno». Il cadavere fu spogliato delle insegne pontificali, variamente maltrattato e alla fine scaraventato nel Tevere. Era una procedura che, come vedremo, aveva una sua ascendenza nella Roma pagana. Ghermire con uncini da macellaio e buttare nel Tevere il cadavere, magari già sepolto, di un sovrano odiato è incivile costume che aveva fatto più volte capolino nella pratica di Roma antica. Ad esempio si minacciò di fare questo a danno del defunto Tiberio, principe che non aveva fatto moltissimo per rendersi amabile. Lo si fece a danno del grossolano Commodo (il figlio e successore del «filosofico» Marco Aurelio) che, pure, di molta demagogia – persino gladiatoria – aveva connotato il suo agire. La frase topica per questi casi era: «Venga trascinato con gli uncini!». In verità il console designato Livio Laurente – cui il cadavere di Commodo era stato affidato – preferì dargli sepoltura di nascosto e nottetempo. Così narrano i cosiddetti «Scrittori della Storia Augusta ». Ma il Senato, cioè un organo composto di persone in genere molto acculturate, protestò. «La sepoltura per lui è ingiusta!»: questo il grido che risuonò nel Senato e così il truce rituale, arricchito del macabro complemento della dissepoltura, poté aver luogo. Che questo trattamento fosse riservato nelle società arcaiche ai capi o ai sovrani caduti nella polvere è agevole documentare. Ma c’è un caso al quale non si pone mente perché la vicenda sembra a molti appartenere ad un’altra storia. È quello dell’imputazione, del trattamento giudiziario, della esecuzione capitale e della ferocia esercitata sul cadavere, nel caso di Gesù. Pilato gli chiede se si consideri «re dei Giudei» (in quanto discendente di David), dopo la grottesca vestizione avviene l’esecuzione capitale. Agli altri due messi a morte (i famosi «ladroni») vengono «spezzate le gambe» (Giovanni 19, 32). Il racconto continua così: «Ma, venuti a Gesù, vedendolo già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli aprì il fianco con una lancia» (19, 33). Un originale libro di Francesco Carotta, apparso in varie lingue ma non in Italia (Was Jesus Caesar?), istituisce accostamenti talora suggestivi tra le due biografie, quella di Cesare e quella di Gesù. Forse si potrebbe conclusivamente osservare che anche il corpo di Cesare, ormai inanime e pluripugnalato, rischiò vari possibili trattamenti. I pugnalatori però non ebbero la forza di procedere alla pratica degli «uncini» riservata ai tiranni detestabili. Forse Cesare faceva loro paura anche da morto. Sta di fatto che un moto di popolo – tra lo sgomento dei pugnalatori – trasformò le sue esequie in una sorta di apoteosi. E le ceneri di lui – come racconta Svetonio – furono vegliate dagli Ebrei di Roma, che gli erano particolarmente riconoscenti. Luciano Canfora