Benny Morris, Il Sole-24 Ore 2/11/2008, pagina 45, 2 novembre 2008
Il Sole-24 Ore, domenica 2 novembre Le colline della Cisgiordania sono punteggiate di insediamenti ebraici, con le loro case ben ordinate dai caratteristici tetti rossi
Il Sole-24 Ore, domenica 2 novembre Le colline della Cisgiordania sono punteggiate di insediamenti ebraici, con le loro case ben ordinate dai caratteristici tetti rossi. Per la maggior parte dei palestinesi, essi rappresentano i simboli e le incarnazioni più evidenti del progetto israeliano di rubare la loro terra. Tuttavia, i fatti ci dicono che questi insediamenti sono stati in gran parte costruiti da operai arabo-palestinesi, e che questi operai continuano tuttora a costruire edifici, muri di sicurezza, tunnel e deviazioni stradali che, giorno dopo giorno, danno più forza all’opera di insediamento degli ebrei e al loro controllo del territorio. Da due generazioni a questa parte, a cominciare dall’estate del 1967, questi operai hanno accettato i loro lavori per dar da mangiare alle loro famiglie, mettendo così i loro interessi privati davanti a quelli collettivi, nazionali. E i partiti politici e le fazioni armate palestinesi non sono riusciti a interferire in questi lavori o a fermarli, anche se questi operai stavano (e stanno) costruendo quelle stesse realtà che il mondo arabo (e tutti i suoi sostenitori) hanno sempre continuato a denunciare come il male. Al contempo, nel corso dei decenni dozzine di palestinesi sono stati uccisi o gravemente feriti da altri arabi per aver venduto, o aver facilitato la vendita, di edifici e terreni (su cui sarebbero poi stati costruiti alcuni degli insediamenti) agli ebrei. Questo fatto riassume in sé l’ambivalenza che, durante tutto il conflitto palestinese-sionista, ha segnato l’atteggiamento degli arabi verso la cooperazione – o, meglio, la collaborazione – con i sionisti. Da un lato, ci sono sempre stati moltissimi arabi pronti a vendere il loro lavoro e la loro terra agli ebrei, a passare informazioni sui militanti arabi o, addirittura, a combattere contro i loro compagni arabi che si stavano scontrando con gli ebrei; dall’altro, ci sono sempre stati gli arabi pronti a battersi contro la vendita delle terre e la cooperazione con gli ebrei, fino a uccidere questi ultimi e i loro collaboratori. Di fatto, poi, talvolta è capitato che fossero le stesse persone a denunciare con ardore il sionismo e ad aiutare in segreto gli ebrei. Hillel Cohen – un professore dell’Istituto Truman dell’Università ebraica, autore di due libri (in ebraico) sulla minoranza araba in Israele – affronta il tema della "collaborazione" in termini oggettivi, senza dar peso, per così dire, al cattivo nome che questo fenomeno si è fatto durante e dopo la Seconda guerra mondiale. La sua prospettiva (e questo è uno dei punti di forza del libro) non è né pro né antipalestinese. Egli afferma che «il tradimento è in ultima analisi un costrutto sociale. Le sue definizioni variano a seconda delle circostanze» e la "collaborazione" è qualcosa che esiste «nell’occhio di chi guarda». Cohen lascia «il giudizio morale e politico ai suoi lettori». Il valore principale del libro di Cohen sta nel suo racconto dettagliato e meticoloso, basato sugli archivi israeliani e occidentali e sui giornali e le memorie degli arabi (non ci sono archivi arabi accessibili di cui parlare), della storia della cooperazione arabo-sionista, periodo per periodo, regione per regione, famiglia per famiglia. Egli descrive i vari tipi e gradi di collaborazione: dal socializzare con i compagni di lavoro ebrei e dal comprare prodotti ebraici, al lavorare i campi degli ebrei, fino a sostenere attivamente la causa sionista con l’intelligence e le armi e a combattere contro i fratelli arabi. L’attenzione di molti lettori verrà attirata dalle penetranti (anche se a volte congetturali) descrizioni che Cohen fa dei motivi che hanno spinto vari collaboratori. Il denaro, o altri tornaconti materiali, «non erano l’unica ragione», ribadisce. Molti arabi vedevano le relazioni con i sionisti come un modo per conquistare il favore dei britannici, che erano universalmente considerati, sia nel 1917 (quando ciò era corretto) sia nel 1947 (quando era ormai illogico) come i patrocinatori e i guardiani del sionismo. Altri erano animati da motivi "nazionalisti": essi, cioè, erano semplicemente convinti che i sionisti avrebbero avuto successo e che era quindi logico, per il bene degli arabi palestinesi, mettersi dalla parte dei (futuri) vincitori. Alcuni erano disgustati dai metodi seguiti dalla maggioranza, i nazionalisti di Husseini, tra i quali figurava anche il terrorismo. Altri ancora avevano amici ebrei o ammiravano gli ebrei. E molti collaboratori agivano per più ragioni diverse. Un discreto numero di arabi palestinesi furono spinti a collaborare dal desiderio di vendetta contro un particolare leader (Husseini), una banda armata o un partito politico che avevano danneggiato loro o i loro cari. Omar Sidqi al-Dajani, per esempio, divenne un importante agente dei servizi segreti dell’Haganah (His) dopo che suo padre Hassan Sidqi al-Dajani, un notabile di Gerusalemme, era stato ucciso dagli uomini del muftì. Di conseguenza, il suo nome in codice nei dispacci segreti dell’His era "hayatom", l’orfano. Verso la metà degli anni Trenta, gli Husseini avevano abbandonato ogni inibizione e avevano iniziato a uccidere i "collaboratori" (e coloro che si opponevano al dominio politico del muftì) su vasta scala. La loro campagna di violenza omicida spinse molti uomini dell’Opposizione (che fino alla metà o alla fine del 1937 aveva appoggiato la rivolta del 1936-39) tra le braccia dei britannici e – con qualche esitazione in più – dei sionisti. Ciò che accadde nel 1936-39 indebolì pesantemente la società araba prima della sua vera prova del fuoco, la guerra del 1947-48 contro gli ebrei. Che cosa possiamo imparare dall’ampia diffusione del fenomeno della collaborazione? Senza dubbio – e Cohen ne è pienamente consapevole – questo fenomeno rivela una fondamentale debolezza intrinseca nel cuore del nazionalismo palestinese. O, detto in altri termini, che il "nazionalismo" di molti palestinesi era soltanto superficiale: in un modo o nell’altro, migliaia di loro aiutarono i sionisti. Ancora più indicativo è il fatto che pochissimi palestinesi abbiano preso concretamente parte alla rivolta nel 1936-39, e che molti di coloro che lo fecero se ne siano poi chiamati gradualmente fuori (o abbiano addirittura cambiato casacca). E anche nel 1947-48 furono in pochi a combattere, senz’altro molto pochi in confronto ai centomila e più ebrei che indossavano l’uniforme al termine del conflitto. Possiamo dire con sicurezza che la mentalità della maggior parte dei miliziani arabo-palestinesi era orientata sui clan; o, comunque, che era di impronta locale e regionale, ma non "nazionale". Ma i palestinesi sarebbero poi cambiati. Il disastro del 1948 rappresentò un’importante pietra miliare nella formazione di un’autentica coscienza "nazionale". Al tempo della prima (1987-91) e della seconda (2000-04) intifada, milioni di palestinesi avevano abbracciato la causa e molte, molte migliaia erano pronti a scendere in strada e a pagare il prezzo in termini di sangue e di prigione. Il nazionalismo palestinese potrà anche non esser stato (né essere tuttora) il nazionalismo laico, democratico e aperto dei moderni Stati dell’Europa occidentale; potrà ancora essere definito in larga misura da ciò a cui si oppone piuttosto che da ciò che spera di costruire; ed è intollerante, violento e, soprattutto, religioso (si noti la vittoria dei fondamentalisti di Hamas nelle elezioni politiche del 2006). Ma, di certo, è ormai un vero nazionalismo. Benny Morris