Flavio Vanetti, Corriere della Sera 5/11/2008, 5 novembre 2008
Dan Peterson, prima «voce» televisiva italiana della Nba, il torneo di basket professionistico può essere usato per leggere la storia dell’America del dopoguerra? «Per certi aspetti sì, vista la crescente popolarità che la lega ha avuto e la sua capacità di dare continuità a un basket che fino a quel momento aveva creato e distrutto varie realtà
Dan Peterson, prima «voce» televisiva italiana della Nba, il torneo di basket professionistico può essere usato per leggere la storia dell’America del dopoguerra? «Per certi aspetti sì, vista la crescente popolarità che la lega ha avuto e la sua capacità di dare continuità a un basket che fino a quel momento aveva creato e distrutto varie realtà. Fu però il baseball a regalare una svolta epocale, proprio nel 1946 quando si costituiva la Nba: l’ingaggio di Jackie Robinson, primo giocatore di colore «pro», segnò l’integrazione razziale nello sport. Fu una tremenda rivoluzione sociale e uno spartiacque decisivo». La crisi finanziaria di queste settimane, un impasse globale, in quale misura inciderà sulla Nba? «Potrebbe avere ripercussioni serie. I segnali ci sono già: i club stentano sempre di più a vendere gli sky-box, quei palchi di lusso dotati di ogni confort e pensati proprio per la clientela Vip. Del resto, è normale: quando c’è da tirare la cinghia, sono gli extra e il superfluo a saltare». La Nba è davvero un modello di organizzazione? «Sì. David Stern è un procuratore che in un quarto di secolo, partendo da una situazione pre-fallimentare, è riuscito a creare un modello vincente. stato bravo e astuto. Ad esempio, per quanto riguarda la comunicazione televisiva, ha invitato a copiare la fantasia di un commentatore della Nfl, John Faccenda: il linguaggio è diventato centrale». Però a non tutti piace lo schema iper-organizzato e tendente al business. «Vero. A volte si punta al dollaro, a discapito del prodotto». Come la vedete, voi americani? «A chi è adulto, diciamo dai 45 anni in su, la Nba di oggi non piace tanto: ha ancora negli occhi partite indimenticabili del passato. Il giovane che non ha memoria storica, invece, trova questo campionato entusiasmante». Episodi ed emozioni del Peterson che tenne a battesimo la Nba sugli schermi italiani? «Indimenticabile la prima telecronaca dal vivo delle finali. Era il 1984, nel leggendario "Boston Garden": aprii il microfono ma per circa mezzo minuto non riuscii a parlare a causa del frastuono. Un’altra volta il collegamento era al telefono, ma non funzionava nulla. Un addetto della Nba smontò un apparecchio e sui due piedi mi preparò uno strumento per parlare. Ecco la loro efficienza...». Quando va alle partite Nba, ai grandi giocatori si presenta come allenatore o come commentatore? «Come tecnico: io sono sempre "coach" Dan Peterson, scherziamo?» La sua Nba vissuta da ragazzo. «Mio papà, poliziotto, di solito mi portava al baseball e non apriva mai bocca. Il basket l’ho scoperto da solo o quasi: a Chicago c’erano gli Stags, che poi scomparvero. Ma io andavo a Minneapolis a vedere i Lakers (poi trasferitisi a Los Angeles, ndr) e il leggendario George Mikan». Quale partita avrebbe voluto dirigere dalla panchina? «Tante. In realtà avrei voluto allenare i Celtics di "Red" Auerbach. Inimitabili». Accusa: la Nba è un’«americanata» ed è uno spettacolo troppo spezzettato. «Toccate un nervo scoperto: è assolutamente così, secondo me. Sarò tetragono e conservatore, ma sono molto meno tifoso di questo format che unisce sport ed entertainment: io vorrei vedere una partita di basket e basta». L’aspetto migliore, invece, è... «La professionalità. Costruita, non casuale». Lei è tifoso, o è stato tifoso, di... «In realtà di nessuna squadra. I "Bulls"? Sono nato vicino a Chicago, ma quando arrivarono era il 1966 e io avevo già 30 anni: troppo tardi per affezionarmi a loro». La conquista dei mercati dell’Oriente, la voglia di espansione. Adesso si parla di far iniziare le stagioni in Europa. giusto? «Mi spiegate che senso ha far giocare, per dire, Boston e Chicago a Londra? Capisco la voglia di business, ma si sta esagerando». vero che il basket Nba sta tornando uno sport anche per bianchi? «Sì, grazie al contributo dei giocatori del resto del mondo». Quando vede D’Antoni e McAdoo, suoi ex giocatori, andare in panchina, non le viene un po’ di invidia? «No, semmai provo orgoglio. Però, certo, mi sarebbe piaciuto sedermi lì». Confessi: la televisione ha ammazzato il fascino che c’era 20-30 anni fa, quando rimbalzavano poche notizie dagli Usa e si trepidava per averle. «Sì, c’è troppa sovraesposizione mediatica. un po’ come guardare una bella donna nuda: visione splendida, ma emozione breve. Se non vedi tutto e immagini, è meglio». Flavio Vanetti