Fulvio Bufi, Corriere della Sera 4/11/2008, 4 novembre 2008
Francesco Sandokan Schiavone le scrisse una lettera piena di maleparole. Era ancora latitante, ma la busta aveva un timbro postale di Napoli, quartiere Secondigliano, quello dove anni dopo si sarebbero scannati i Di Lauro e gli scissionisti
Francesco Sandokan Schiavone le scrisse una lettera piena di maleparole. Era ancora latitante, ma la busta aveva un timbro postale di Napoli, quartiere Secondigliano, quello dove anni dopo si sarebbero scannati i Di Lauro e gli scissionisti. Rosaria l’ha ritrovata di recente. Una sequela di oscenità in corpo 11. una delle poche che non ha consegnato ai magistrati. Questa e un paio di Giuseppina Nappa, la moglie di Schiavone, un’altra che aveva l’abitudine di scriverle. Quando si lamentava per qualche articolo pubblicato sul Mattino, ci metteva la firma. Quando minacciava preferiva l’anonimato. Però scriveva sempre a penna e in stampatello: si faceva riconoscere comunque. Rosaria la odiano, gli Schiavone. E la odiano tutti i Casalesi. Sandokan, che è il capo dei capi, un poco in più per un fatto personale. Era appena riuscito a farsi dissequestrare una campagna a Ferrandelle, un terreno che oggi fa parte della discarica più grande della Campania, e Rosaria smontò pezzo pezzo quella sentenza così benevola verso il boss. Alla Procura antimafia bastò infilare il suo articolo nel ricorso e fu un successo: sequestro riconfermato e poi anche confisca. Era il 1991, e quel terreno all’epoca valeva dieci miliardi di lire. Queste sono le cose che fanno incazzare i Casalesi. Andare in piazza a dirgli che non valgono niente è una sfida, sfilargli dal portafogli dieci miliardi è un colpo al cuore. «Io scrissi e il giorno dopo partii per le ferie, per un mese non sentii nessuno. Quando tornai in tribunale fui accolta come l’ultima dei pazzi. Avvocati, magistrati, investigatori. Tutti mi guardavano allo stesso modo: come una che si è appena messa nei guai». Lei aveva semplicemente fatto bene il suo lavoro, ma la decisione di ammazzarla i Casalesi la maturarono proprio allora. Anche se già prima c’era stato uno che si era messo in testa di toglierla di mezzo. Si chiamava Enzo De Falco, aveva fatto una soffiata per far arrestare Schiavone e Francesco Bidognetti, e Rosaria l’aveva scritto. «In quel periodo non avevo la scorta, ma devo dire che i carabinieri mi proteggevano. Ogni volta che uscivo c’era una pattuglia che fingeva di trovarsi a passare per caso davanti a me e mi offrivano un passaggio ». La scorta vera sarebbe arrivata solo diciassette anni dopo, e nel frattempo Rosaria Capacchione ha continuato a occuparsi di giudiziaria (è dal 1986 che segue inchieste e processi) senza mai subire una condanna per diffamazione o dover risarcire qualcuno. «Io lo so che se ora ho la protezione, indirettamente lo devo a Roberto Saviano. Se il mio nome non fosse stato accostato al suo non l’avrei avuta. E avrei continuato a non chiederla. Al massimo mi sono allontanata da Caserta e me ne sono andata a lavorare a Napoli, alla redazione centrale del mio giornale. Ma poi sono tornata e ho ripreso a fare quello che facevo prima. E continuo a farlo». Il 13 marzo scorso, durante un’udienza del processo Spartacus, un avvocato si prestò a fare da portavoce ai Casalesi e lesse in aula una lettera dei boss Antonio Iovine (latitante) e Francesco Bidognetti, in cui Rosaria era citata insieme con l’autore di Gomorra e con il magistrato Raffaele Cantone (già sotto scorta) come persone che cercavano di influenzare i giudici. «I Casalesi volevano visibilità, e con quel proclama l’avevano ottenuta. Sanno benissimo che parlare di Saviano equivale a finire sui giornali e in tv. Si fossero limitati al mio nome e a quello di Cantone, non sarebbe stata la stessa cosa. Quel giorno era giovedì, il comitato per la sicurezza si riunì il lunedì successivo, e il martedì mi arriva una telefonata dalla questura: "Signora, può dirci dove si trova? Deve raggiungerla la scorta". Un pugno nello stomaco. Capii che la mia vita era cambiata. Li depistai, li mandai da un’altra parte e mi presi un’ora per fare l’ultima passeggiata da sola. Dopo non è stata più la stessa cosa. Sia nel lavoro che nella vita privata. Io mi occupo di giudiziaria, ho fonti confidenziali, non posso avvicinarle accompagnata da altri. Ho dovuto inventarmi qualche escamotage. Nel privato, poi, non c’è bisogno di dirlo. Una cosa tua non la sai più soltanto tu ma almeno altri tre. Non è bellissimo vivere così». Cerca di adattarsi, di evitare le uscite improvvise. «Non mi piace che i tempi della vita di altre persone debbano dipendere da me. Ci vuole una formazione aristocratica per trovare normale avere sempre un autista a disposizione, figuriamoci anche le guardie del corpo. E io non ho proprio quel tipo di cultura». Legge Marquez e Saramago, ama Parigi, e non consiglierebbe mai ai suoi nipoti di fare i giornalisti. E si occuperebbe volentieri di alta moda, anziché di camorristi, stragi e pentiti. «Nera e giudiziaria è quello che mi tocca, professionalmente. Non ne faccio una questione di impegno civile, anzi, se nel mio impegno civile oggi non c’è la lotta alla camorra è proprio perché è quello il tema al centro del mio lavoro. E io lavoro come faccio ogni altra cosa nella vita: cerco di capire, e insisto finché non capisco. Farei così anche se mi occupassi di cronaca sindacale, di sport o di quella benedetta alta moda che mi permetterebbe di stare spesso a Parigi». Ma siccome si occupa di camorra, questo modo di lavorare le è valsa una condanna a morte. I piani dei Casalesi per ammazzare Rosaria sono al centro delle confessioni di almeno tre pentiti. Uno di loro, Dario De Simone, nel 1996 racconta ai magistrati di quando Michele Iovine, capozona di Casagiove (poi ucciso), si procurò una sua foto e l’operazione partì. La pedinarono a lungo, l’aspettavano la sera all’uscita dal giornale e la seguivano per osservarne le abitudini e stabilire quando sarebbe stato meglio sparare. Alla fine decisero che lo avrebbero fatto proprio davanti alla sede del Mattino, e al magistrato che, fuori verbale, gli chiese perché poi avessero cambiato idea, De Simone rispose: «Su Rosaria Capacchione i Casalesi non hanno mai cambiato idea. C’erano solo cose più urgenti da fare». «Io so che occupandomi di loro, faccio due cose che odiano: li metto al centro dell’attenzione e ne analizzo i comportamenti. E quindi lo so bene: scorta o non scorta, se rimettono mano al progetto, quelli prima o poi mi ammazzano ». Fulvio Bufi