Angelo D’Orsi, La Stampa 4/11/2008, 4 novembre 2008
Settant’anni or sono, il 10 novembre 1938, moriva a Istanbul Kemal Atatürk, il fondatore della moderna Turchia
Settant’anni or sono, il 10 novembre 1938, moriva a Istanbul Kemal Atatürk, il fondatore della moderna Turchia. Da anni si discute sulla collocazione ideale, politica e culturale, di quel Paese, discussione intensificatasi dal momento in cui, non troppo tempo fa, si cominciò a valutare la possibilità d’ingresso nell’Unione Europea. Non furono pochi allora, e non sono pochissimi neppure oggi, coloro che sostennero il carattere asiatico della Turchia, accampando anche la motivazione - che ha, peraltro, seri fondamenti - di un non sempre adeguato standard di rispetto dei diritti umani. A ripercorrere la biografia di questo straordinario personaggio, ci si rende facilmente conto che non soltanto la Turchia appartiene pienamente alla storia e alla cultura europea, ma altresì che, in fondo, l’autoritarismo, il militarismo e la persecuzione dei curdi, per esempio, rinviano direttamente ad Atatürk. Che dunque, nel bene e nel male, è in larga parte ciò che la Turchia è oggi. Egli realtà si chiamò Mustafa, poi Mustafa Kemal («brillante»), quindi Mustafa Kemal Pascià, poi Gazi Mustafa Kemal, infine solo Kemal, aggiungendo poi il cognome Atatürk, ossia «grande progenitore turco» (decidendo che nessuno avrebbe potuto portarlo a parte lui, evitando così faide successorie), quando impose ai turchi di assumere un vero cognome. Fu una delle ultime riforme autoritarie, ma efficaci, di questo politico, stratega, diplomatico di respiro internazionale. Alla sua scoperta, nei mutevoli contesti storici e geopolitici, ci guida una bella biografia scritta da uno studioso italiano, che vive e insegna a Istanbul, Fabio L. Grassi (Atatürk, Salerno Editrice, pp. 448, e29). Opera pregevole, anche se non del tutto esente dall’agiografismo, fin troppo ricca di dettagli, non sempre essenziali: del resto si tratta del primo lavoro nella nostra lingua su una figura rilevante del secolo, quanto, specie da noi, misconosciuta; dobbiamo dunque esser grati a autore e editore per lo sforzo. Kemal nacque in data imprecisata fra il 1881 e il 1882, a Salonicco: dunque città europeissima, uno di quei luoghi che nel bacino mediterraneo furono crogioli di convivenza di etnie, culture, religioni. In ogni caso era quella l’epoca della decadenza ottomana, processo che Kemal visse e portò poi alle estreme conseguenze, recidendo il filo che ancora teneva in vita, sia pure agonizzante, un impero fondato circa sei secoli prima. Proprio quando Kemal nasceva, le indebitatissime finanze ottomane passavano sotto il controllo di un comitato internazionale: culmine del disonore per uno Stato che era stato fra i più potenti del mondo, e che ormai era considerato «il malato d’Europa». Ma era pure uno Stato plurale, con genti, culture, religioni diverse. Kemal si adoperò tutta la vita per ridurre a unità la molteplicità, creare coesione nazionale là dove vivevano contrasti, separare i turchi dagli altri popoli e dar loro una patria nazionale. Per dirla con Gramsci, oppose il nazionalismo al «cosmopolitismo teocratico» dell’Islam. Se Gramsci avesse potuto davvero studiarne l’operato, l’avrebbe probabilmente inserito sotto la categoria del «cesarismo progressivo». Nella concezione maturata da Kemal era lo Stato a creare le nazioni, e non viceversa, così anticipando interpretazioni storiografiche recenti, secondo cui, appunto, le nazioni sono costruzioni politiche e culturali. E Kemal costruì la Turchia, in un’azione di lungo periodo e di complessa architettura, lottando all’esterno e all’interno, con determinazione e, al caso, con ferocia, quasi moderno Duca Valentino. Ma a differenza di Cesare Borgia, studiato nel Principe machiavelliano, Kemal vinse quasi tutte le sue battaglie e soprattutto raggiunse l’obiettivo finale: l’edificazione di uno Stato nazionale unitario, solidale, coeso. Dopo le conquiste militari, per un decennio, a partire dal 1918, l’unificazione procedette di conserva con l’occidentalizzazione, bruciando le tappe, con una determinazione praticamente invincibile: l’alfabeto, la lingua, i codici, il calendario, il voto femminile, l’abbigliamento (via il fez, via le barbe e i baffi!)... Fu per lui il banco di prova di uno Stato moderno e laico. Kemal si rivela, insomma, un grande costruttore, in quanto seppe anche, prima di tutto, essere un terribile distruttore, e i suoi nemici lo impararono a proprie spese: greci, armeni, curdi all’esterno; ottomani e islamici tradizionalisti all’interno; nonché i tanti suoi rivali politici. Seppe altresì condurre il gioco tra grandi potenze, astutamente, sfruttando contrasti ed errori di russi, britannici, francesi, italiani. Si guadagnò rispetto, timore, ammirazione. Lenin lo definì «un buon rivoluzionario», «leader capace», «uomo di Stato progressista e intelligente». Oggi il suo lascito politico è contrastato da molti, che pure lo sacralizzano. Il grande padre turco, probabilmente, rimarrà - nella Turchia avvenire, entrata nell’Unione - una figura di riferimento, nel cui nome tenere a bada gli oltranzisti islamici, ma anche i fautori di un’americanizzazione selvaggia. Occorrerà però, forse, fare i conti, con onesta equità, con le questioni sospese, da quelle sociali a quelle etniche. Oggi i grandi nodi non possono più esser tagliati con la spada, ma sciolti con il dialogo e il confronto.