Internazionale, n.768 31 ottobre/ 6 novembre (fonte: Andrew Sullivan, The Sunday Times), 4 novembre 2008
Oggi l’appoggio a Obama è più compatto di quanto sia mai successo per qualsiasi altro leader democratico
Oggi l’appoggio a Obama è più compatto di quanto sia mai successo per qualsiasi altro leader democratico. Ma la differenza non è eccessiva: i candidati democratici hanno sempre avuto dalla loro parte il 90 per cento della comunità nera. Vi ricordate Bill Clinton? La cosa straordinaria, questa volta, è che Obama ha evitato di fare qualsiasi appello diretto alla razza o alla politica dell’identità, riuscendo a evitare di essere etichettato come un leader nero. Il momento in cui la campagna di Obama ha rischiato di essere condizionata dalla questione razziale è stato in primavera, con le dichiarazioni antiamericane del reverendo Wright; e Obama ne è uscito con il discorso del 18 marzo al Constitution Center di Philadelphia, con cui possiamo dire che la sinistra si è finalmente liberata della politica razziale che si portava dietro dagli anni Settanta. Il paradosso è che la politica della razza e dell’identità non è morta, si è solo spostata a destra. La scelta di Sarah Palin come candidata repubblicana alla vicepresidenza è stata motivata proprio da questo tipo di politica. Piuttosto che parlare davvero di politica, Palin è diventata un simbolo. Andava nelle zone agricole continuando a chiamarle la parte più "americana" del paese. Alla fine della campagna si è capito che il suo messaggio era questo: "Votate per me. Io sono come voi. Noi siamo meglio degli altri". Anche McCain per tutta la campagna ha fatto appello ai reduci di guerra, come se tutti i reduci avessero le stesse idee politiche e dovessero sempre votarsi a vicenda. Obama, con il suo messaggio di cambiamento, ha scelto deliberatamente di lanciare un appello che va al di là della razza, del sesso e della geografia. Il messaggio dei repubblicani è più confuso e si rivolge solo alle persone che sono come McCain e Palin.