Mario Pirani, la Repubblica 3/11/2008, 3 novembre 2008
Nel coro di giustificato pessimismo suscitato dalla crisi finanziaria si è distinta in contro-tendenza una corrispondenza de Les Echos, quotidiano economico francese, che, sotto il titolo «L´industriosa Italia prende la sua rivincita», indica nell´economia reale del nostro Paese un modello capace ben più di altri di resistere alla tempesta in corso
Nel coro di giustificato pessimismo suscitato dalla crisi finanziaria si è distinta in contro-tendenza una corrispondenza de Les Echos, quotidiano economico francese, che, sotto il titolo «L´industriosa Italia prende la sua rivincita», indica nell´economia reale del nostro Paese un modello capace ben più di altri di resistere alla tempesta in corso. «Le esportazioni italiane - scrive il giornale d´Oltralpe - sono superate solo da quelle tedesche. Le imprese, malgrado la piccola dimensione, la sottocapitalizzazione cronica, l´assenza di aiuti all´export, si sono ristrutturate, hanno alzato il livello di qualità dei loro prodotti e affrontato l´innovazione... Gli altri Paesi, in particolare la Francia, non possono dire altrettanto. Così l´Italia si piazza al secondo posto nel mondo, dopo la Germania, in termini di competitività commerciale, secondo i dati del Wto, l´Organizzazione mondiale del Commercio». Qualche lettore ricorderà che su queste colonne (Repubblica 29/7/08: «La rivincita dell´Asse Roma-Berlino») avevo segnalato, sulla base, appunto, del più moderno metodo statistico adottato dall´Onu e dal Wtc, come la Germania e l´Italia, trascinata dalle regioni del centro-nord, fossero in testa alle classifiche concernenti la competitività del sistema industriale. Gli approfondimenti condotti dall´economista Marco Fortis della Fondazione Edison ed anche le ultime inchieste sul Nordest di Alessandra Carini per il nostro supplemento «Economia e Finanza», comprovano come il trend positivo in una serie di comparti dell´industria manifatturiera sia proseguito a tutt´oggi in maniera sostenuta, anche se affievolita dalla crisi (il nostro surplus manifatturiero è salito in 3 anni del 49%, in cifre assolute da 41 a 62 miliardi di euro, un record storico). Naturalmente è una vitalità a macchia di leopardo, con profondi segni negativi per il regresso meridionale, la arretratezza della PA, della scuola e della ricerca, l´incapacità di tenuta dei settori non collegati al mercato internazionale, il deficit energetico, le carenze infrastrutturali. Prendere atto di questa realtà duale implica, però di riproporre, nei comparti ad alta competitività, una politica salariale più attiva, non solo ripiegata nella richiesta di sgravi fiscali, in definitiva a carico dell´erario. La discussione in corso sulla riforma dei contratti va ancorata a questa situazione e così le divergenze in proposito tra Cisl e Uil, da un lato, e Cgil dall´altro. Il confronto tra le prime due, gli imprenditori e il governo si dipana, per quanto si riferisce al contratto nazionale, attorno al superamento della vecchia «inflazione programmata», risalente agli accordi del ´93. In base ad essa gli aumenti dovevano essere contenuti entro un tasso d´inflazione predeterminato, quali che fossero poi gli andamenti reali. Un principio che ha portato a una progressiva erosione dei salari reali, tanto che l´ultima «inflazione programmata» annuale poneva il limite all´1,7% mentre quella effettiva toccava il 4,1%. La discussione verte ora attorno all´adozione di un attendibile indice europeo, affidando l´analisi della previsione a un istituto economico indipendente. Dopo di che il tasso d´inflazione previsto si applicherebbe per tre anni ai minimi tabellari contrattuali. La Cisl e la Uil, tuttavia, si sono dichiarate disponibili ad escludere dal calcolo il costo dei beni energetici importati, così da depurare l´indice da derive inflattive di origine esterna. Al contrario la Cgil pretende che anche petrolio ed energia in genere siano inseriti nella copertura. Ne risulterebbe una specie di scala mobile che scaricherebbe sul costo del lavoro anche l´inflazione internazionale. Una rivendicazione impossibile che farebbe saltare l´accordo. L´altro punto di disaccordo si riferisce al contratto di secondo livello (aziendale e territoriale) dove gli aumenti sarebbero correlati alla produttività e incentivati dalla detassazione delle voci corrispondenti (straordinari, premi, ecc.). Anche per questi contratti, mentre Cisl e Uil accetterebbero, in caso di vertenza e scioperi, alcune possibilità di arbitrato e conciliazione, la Cgil è ferma nel rifiuto di ogni regola di «raffreddamento». Vi è poi un´altra ipotesi, più pericolosa ed esiziale, caldeggiata da ambienti confindustriali, una parte dei Ds e dell´estrema sinistra e un´ala del governo: stabilire per legge il minimo contrattuale, sovrapporre il Parlamento e la politica al sindacato, esautorato della sua funzione essenziale, abbandonare ad un Far West padronale senza regole la concessione unilaterale degli aumenti di produttività. Berlusconi docet.