Mario Baudino, La Stampa 2/11/2008, 2 novembre 2008
Divenne il re dei librai antiquari grazie al suo talento di commerciante, di seduttore, di incantatore, ma soprattutto grazie alla crisi di Wall Street
Divenne il re dei librai antiquari grazie al suo talento di commerciante, di seduttore, di incantatore, ma soprattutto grazie alla crisi di Wall Street. E quando, vicino ai 90 anni, decise di cominciare a vendere i tesori sepolti nel suo negozio parigino dell’Avenue Friedland, vicino all’Arc de Triomphe, le aste andarono avanti per due anni, realizzando una cifra sui 35 milioni di euro. Quell’«impero di carta» non era neppure tutto ciò che possedeva. «Qualcosa avrà certamente conservato per sé, nella sua villa sulla Costa Azzurra», dice Ambrogio Borsani, che a Pierre Berès ha dedicato un saggio in uscita sulla rivista Bibliologia diretta da Giorgio Montecchi della Statale di Milano. Come Sylvestre Bonnard, il mitico collezionista dal cuore d’oro ma dai recessi impenetrabili inventato da Anatole France, Berès ha sicuramente portato con sé qualche segreto quando, lo scorso luglio, è morto a 95 anni, in faccia al mare di Saint-Tropez. Il ministro francese della cultura, Christine Albanel, lo ha pianto come una «figura leggendaria nel mondo dell’arte, del collezionismo e dell’editoria», e per una volta nessuno ha pensato alla solita esagerazione retorica dei politici. Che fosse leggendario non c’è dubbio. Per esempio, si sa a malapena che era nato a Stoccolma, nel 1913, col nome di Pierre Berestov, madre russa, padre incerto. Non ci sono molte notizie sicure su come sia finito a Parigi e abbia aperto la prima libreria. A 13 anni era comunque già nella capitale francese, a caccia di autografi come tanti ragazzi. Lui però puntava alto: ai membri dell’Académie Française, per esempio. Si presentò alla porta di Georges Clemenceau, due volte presidente del Consiglio, chiedendogli di mettere la firma su un quaderno dove c’erano già quelle di 31 immortali. molto probabile che ne facesse un uso commerciale, proprio come il personaggio di un delizioso romanzo di Muriel Spark, Le ragazze di pochi mezzi, che fa vergare a un’amica particolarmente talentuosa lettere sempre diverse e sempre con mittenti inventati all’occasione, indirizzate a famosi autori per ottenere una risposta firmata. Da vendere. Non è affatto detto che la grande scrittrice inglese, quando lavorava al libro (uscito nel ”63) pensasse a Berès, ma è ampiamente verisimile che ne conoscesse l’esistenza. Da tempo era il re del mercato internazionale; principi, industriali e politici bibliofili (come François Mitterrand, che cercava da lui le prime edizioni di Jean Genet) cascavano deliziati nella sua rete. Pare fosse impossibile resistergli, sia quando chiedeva sia quando offriva. André Gide, che lo conobbe studente liceale, gli dava i manoscritti delle sue opere perché li vendesse al miglior prezzo. Si racconta che solo Paul Léautaud gli sbatté la porta in faccia, nel ”41, quando Berès si presentò con una copia del Petit ami appartenuta al poeta Henri de Régnier, chiedendogli con una certa faccia di bronzo se voleva, da autore, metterci una bella dedica. «Se la scriva da solo», fu l’irata risposta. Ma ormai il libraio, tranquillo in piena guerra (Ernst Jünger, allora a Parigi con le truppe d’occupazione tedesche, racconta di aver comprato molti volumi da lui, e senza sconto), poteva permettersi il lusso di incassare qualche rifiuto. Aveva ormai messo a segno il colpo della vita. In America. Dopo un attento studio degli sviluppi della crisi del ”29, infatti, Berès cominciò a traversare l’oceano in cerca di occasioni. E nel ”38 riportò - in nave - una quantità enorme di libri preziosi acquistati alle aste di due noti collezionisti miliardari messi in ginocchio dal crollo di Wall Street. Dicono i cronisti che si alzava solo la sua mano. Conquistò la prima, introvabile edizione del Don Chisciotte di Cervantes, e una serie di volumi francesi appartenuti alla collezione di Francesco I. Vendette qualche cosa, tanto per pagarsi il viaggio, e seppellì il resto per decenni negli anfratti più segreti del suo negozio, realizzando, quando venne il momento, guadagni smisurati. I concorrenti, com’è ovvio, spettegolavano: per esempio lo accusavano di spacciare per suoi i libri preziosi visti sui cataloghi o nei negozi altrui, chiedere al cliente che li desiderava di aspettare qualche giorno perché doveva tirarli fuori da un remoto magazzino, comprarli e quindi rivenderli a prezzo aumentato. Gli amici, però, lo adoravano: da Pablo Picasso a Luis Aragon, da Henri Matisse a Roland Barthes e Raymond Queneau. Diventò anche editore: nel ”56 acquisì le Editions Hermann, casa specializzata in libri di scienza, ne ampliò il catalogo alla critica letteraria e li fece scrivere un po’ tutti. Si dette anche all’arte, sia come stampatore sia come collezionista. Ma naturalmente lo scopo della sua vita continuavano a essere i testi impossibili, introvabili, ritenuti scomparsi per sempre: come il manoscritto del Viaggio al termine della notte di Céline. Lo vendette nel 2001 alla Bibliothèque Nationale per 1 milione e 800 mila euro. Ai giornalisti che, annusando una storia avventurosa, gli chiedevano come diavolo gli fosse arrivato, rispose: «Dalla porta». Aveva un solo scopo: essere il più bravo. E per dimostrarlo sapeva anche essere molto generoso. Così, durante la grande asta all’Hôtel Drouot che in qualche modo sembrava il suo solenne funerale, tolse all’improvviso dai pezzi in offerta un’edizione della Certosa di Parma con le correzioni autografe di Stendhal, fatte dopo che lo scrittore aveva letto la recensione di Balzac dove lo si criticava per le prime pagine, e la regalò allo Stato francese. Un dono da Wall Street.