1 novembre 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 3 NOVEMBRE 2008
(Parte I - BARACK OBAMA) Il presidente degli Stati Uniti verrà eletto domani, ma per i bookmaker Barack Obama ha già vinto. L’allibratore irlandese Paddy Power ne è tanto sicuro che ha già pagato i suoi clienti: tra i tanti, si segnalano i 150 mila dollari incassati da uno scommettitore che ne aveva puntati 100 mila e i 2.550 portati a casa da un tizio che ne aveva puntati 50 scommettendo sul candidato Democratico già nel 2005. [1]
Barack Hussein Obama nacque ad Honolulu, nelle isole Hawaii, il 4 agosto 1961. Il padre, pure lui Barack (Benedetto in swahili), era nato sulle rive del Lago Vittoria, in Kenya, da una famiglia di agricoltori. Paolo Mastrolilli: «Grazie a un programma di scambio tra studenti, aveva potuto trasferirsi alle Hawaii. La futura madre di Obama si chiamava Ann, era bianca e viveva con la sua famiglia in Kansas. I genitori a un certo punto decisero di tentare la fortuna ai tropici e andarono ad abitare ad Honolulu. dunque alle Hawaii che Barack senior e Ann si erano incontrati, si erano innamorati e si erano sposati, tra le minacce dei parenti di lui, che avevano inviato lettere dal Kenya, accusandolo di disonorarli mettendosi con una bianca». [2]
In breve Barack sr. decise di tornare in Kenya e Barack jr. rimase senza padre prima ancora di imparare a parlare. Nel 1964 Ann sposò il manager indonesiano di una compagnia petrolifera e portò il figlio a vivere a Giakarta. Mastrolilli: «Quell’esperienza lo aveva segnato: ”Bambini poveri in mezzo alla strada, troppo malati o troppo stanchi per chiedere l’elemosina. Guardie di ricche ville che gettavano monete fuori dai cancelli, solo per vedere la gente che si buttava nel traffico a raccoglierle”. La storia non durò, almeno per lui, e la madre lo rispedì alle Hawaii per stare con i nonni: un bambino nero, in una famiglia bianca del Kansas, che cresce sulle spiagge di Honolulu facendo surf. Inevitabile che Barack fosse un po’ confuso». [2]
Nella biografia Dreams From My Father, Obama confessò che in gioventù fumava marijuana e pippava cocaina. « successo a parecchi giovani. Io però ho imparato dai miei errori e sono andato avanti». Mastrolilli: «Andare avanti significò iscriversi alla Facoltà di Antropologia della Columbia University di New York, laurearsi e trasferirsi a Chicago, per lavorare nel Developing Communities Project, un gruppo di assistenza sociale gestito da una chiesa. Dopo tre anni passati ad aiutare i poveri di South Side, il ghetto nero della città, Obama ancora una volta ripartì. Questa volta la destinazione era la prestigiosa Università di Harvard, dove non solo si laureò in legge, ma divenne il primo direttore nero della ”Law Review”». [2]
Dopo la laurea, Obama tornò a Chicago per fare pratica in uno studio legale specializzato nelle cause delle vittime della discriminazione. Mastrolilli: «Insegnava anche alla Law School della University of Chicago. Nel frattempo aveva conosciuto Michelle, si era sposato, e avevano avuto due bambine. Nel 1996 un amico gli propose di candidarsi al Senato dell’Illinois, e lui anche questa volta disse sì e vinse. Così, quando il repubblicano Peter Fitzgerald annunciò che lasciava il seggio senatoriale nazionale dello Stato, Barack fu la scelta ovvia dell’opposizione». Vinte le primarie, in pochi mesi si trasformò nella stella nascente del Partito democratico. [2]
Obama venne presentato al grande pubblico da John Kerry sul palco della Convention di Boston (luglio 2004), dove si descrisse come una sintesi del melting pot americano: «Sono nato a Honolulu, il mio accento viene dal Kansas ed il mio nome viene dal Kenya». Maurizio Molinari: «In quell’occasione Obama disegnò l’orizzonte di un partito nuovo, chiamato ad andare oltre la battaglia antisegregazionista e ad impegnarsi per una vera integrazione delle minoranze nella società». Nel giorno della secca sconfitta di Kerry contro Bush, Obama fu l’unico eletto afroamericano al Senato di Washington (quinto nero a Capitol Hill della Storia). [3]
Figlio di un padre che in gioventù era stato islamico, Obama, che ha scelto la religione metodista, pronunciò il 28 giugno 2006 quello che allora sembrò il discorso più importante della sua vita. Enrico Pedemonte: «Invitato a una conferenza dedicata al rinnovamento del partito democratico, ha tenuto un intervento lungo e appassionato, criticando il partito - e se stesso - per avere lasciato l’arma della religione nelle mani della destra conservatrice. Il suo obiettivo esplicito è riconquistare quel 38 per cento di americani che considerano la fede cristiana il pilastro della loro esistenza: si tratta di gran parte degli evangelici che negli ultimi anni sono diventati la base elettorale più solida del partito repubblicano». [4] Ad ottobre 2006 il settimanale Time mise in copertina il volto di Obama con la scritta ”Il prossimo presidente degli Stati Uniti”. [5]
A Natale 2006 Jeff Greenfield della Cnn profetizzò. «L’America non è, semplicemente, pronta a un candidato nero il cui nome rima con quello del nemico numero uno del paese, Osama». [6] In Barack Obama, la rock star della politica americana (Utet), Guido Moltedo e Marilisa Palumbo ricordano che una cronista del New York Times telefonò al quartier generale di Obama per sapere quale fosse l’esatta grafia del suo secondo nome. Senza esitare, la persona interpellata rispose: «Come quella del dittatore». Obama intendeva smontare le speculazioni dimostrando che non aveva nulla da nascondere. Le speculazioni, tuttavia, continuarono a circolare. [7]
A Giakarta, si dice, Obama frequentò una madrassa. La Cnn mandò un reporter nella capitale indonesiana per verificare la notizia col vicedirettore della scuola dove Obama aveva studiato. Sergio Romano: «Gli fu risposto che la scuola era laica e che l’Islam era insegnato nelle ore di religione perché quella era la confessione della maggioranza degli studenti. Vi fu poi, per chiudere il caso, un comunicato stampa dell’ufficio di Obama in cui si dichiarava che il bambino Barack, durante il suo soggiorno in Indonesia, aveva studiato per due anni in una scuola cattolica e per altri due in un istituto pubblico. Ma lo stesso Obama, in un’altra circostanza, avrebbe detto di avere studiato per due anni in una scuola cattolica e per due anni in una scuola musulmana». [7]
A gennaio 2007 una testata vicina ai Democratici come il Washington Post consigliò a Obama di rinviare le sue ambizioni al 2012 se non al 2016, «quando sarà più maturo». [8] I detrattori presero a chiamarlo ”Obambi”. [9] L’ufficializzazione della candidatura arrivò il 10 febbraio 2007 nella Piazza del Parlamento di Springfield, capitale dello stato dell’Illinois, dove nel 1858 Lincoln, futuro unificatore dell’America, aveva ammonito che «una casa divisa non può restare in piedi». Ennio Caretto: «In rapida successione ha elencato il suo programma ”liberal”: il ritiro dall’Iraq nel 2008 ma la continuazione della lotta al terrorismo; drastiche riforme economiche e sociali; rispetto dei diritti civili». In quel momento i sondaggi lo davano in seconda posizione tra i candidati democratici dietro l’ex first lady Hillary Clinton. [10]
Obama strappò subito alla Clinton il sostegno di Hollywood. David Geffen, re dei produttori: «Hillary ha due handicap. una figura polarizzante, ed è l’espressione di una dinastia, come i Bush. Barack è una figura che ispira la gente e che la rappresenta». [11] A maggio 2007 Oprah Winfrey, definita da Forbes «la celebrità più potente del pianeta», annunciò che l’avrebbe sostenuto.«Per la primissima volta in vita mia ho deciso di schierarmi», dichiarò la diva tv al Larry King Show. Alla domanda «Può un nero essere eletto alla Casa Bianca?», rispose senza esitazioni: «Certo, soprattutto ”questo” nero». [12]
Vittima dei primi attacchi pubblici per il colore della pelle (il conduttore radiofonico ultraconservatore Rush Limbaugh lo chiamò ”Magic Negro”, definizione coniata negli anni Sessanta da alcuni sociologi per descrivere gli afroamericani che sembravano «venire dal nulla» ovvero correvano a integrarsi nella società bianca senza più alcun rapporto con le loro radici), preferì rispondere a quelli che concentrandosi sulle grandi orecchie avevano preso a chiamarlo ”Odumbo”: «Vi avverto, su questa cosa sono molto sensibile perché mi hanno preso molto in giro da piccolo». [13]
Iniziata la corsa alla Casa Bianca, decise di smettere di fumare. Vittorio Zucconi: «Un Barack Obama con una Marlboro alla Casa Bianca sarebbe forse piaciuto a quell’America ”afro” che ancora accende sigarette proporzionalmente più di quella ”euro”, ma per l’elettorato di mezzo, per le ”mamme di sobborgo”, per le armate della ”fitness” sarebbe stato uno scandalo più intollerabile di un Bush che mente sugli arsenali di Saddam o di un Clinton con un sigaro spento e una stagista tra le mani». [14]
All’inizio della campagna Obama non perse occasione per parlare della madre, ammalatasi di cancro alle ovaie quando aveva 53 anni. Enrico Pedemonte: «Era il 1995, sua madre aveva appena cambiato lavoro e la nuova assicurazione rifiutò di assisterla con il cavillo che la malattia era precedente la firma del contratto: ”Negli ultimi mesi di vita la più grossa preoccupazione di mia madre fu il timore di mandare sul lastrico l’intera famiglia per pagare le cure”, racconta: ”Io so che cosa significa una sanità che non funziona”». A settembre lo davano 18 punti percentuali dietro la Clinton, 42 a 24 nei sondaggi nazionali. Ma nessuno pensava fosse spacciato. «Era dai tempi di Bill Clinton che non si vedeva in giro un carisma simile», commentò Robert Putnam, sociologo alla Harvard University. [15]
Al culmine di una clamorosa rimonta, il 3 gennaio, inizio delle primarie, Obama trionfò in Iowa. [16] Ottenne il 38% dei voti contro il 29,8% di John Edwards e il 29,5% di Hillary Clinton, relegata in un rovinoso terzo posto che allarmò il suo staff, preparato solo per una gara di testa. [17] Cinque giorni dopo, in New Hampshire, Obama perse malamente (vittoria di Hillary). Lo stesso avvenne il 19 gennaio in Nevada. [16] Il 26 gennaio però, Obama sconfisse la Clinton nel South Carolina con un clamoroso 55 a 27. Vittorio Zucconi: «Le pareti di cristallo del Palazzo dei Congressi imbullonate ai supporti di acciaio, vibravano attorno a noi come pelli di tamburo sotto le spallate sonore dello ”Yes-we-can”, sì, possiamo, del coro di vittoria ritmato coi piedi e intonato dai 30 mila assiepati ad attendere Obama». [18]
Il 28 gennaio arrivò l’endorsement di Ted Kennedy, icona storica dei democratici e capo della più celebre dinastia progressista americana. [19] La resa della Clinton arrivò il 7 giugno. Valentino: «C’era un forte nesso simbolico nella scelta di Hillary Clinton, di tenere il discorso della resa al National Building Museum, l’edificio neoclassico eretto dopo la Guerra Civile per accudire i veterani, nordisti e sudisti. Un luogo della riconciliazione per pacificare la famiglia democratica, dopo una ”dura lotta” durata cinque mesi». [20] Molti speravano che l’ex first lady sarebbe stata ripescata come candidata alla vicepresidenza in un ticket da sogno, invece il 23 agosto la scelta cadde sul senatore Joe Biden, già autore della più spettacolare gaffe su Obama: « il primo candidato afroamericano che ha un linguaggio articolato, è brillante, pulito e di bell’aspetto». [21]
L’incoronazione ufficiale di Obama come candidato Democratico arrivò il 28 agosto a Denver. Valentino: «In meno di un’ora, nella più classica iconografia americana, con Michelle, Malia e Sasha in prima fila a un passo dal podio, il senatore dell’Illinois ha confezionato lo speech più completo della campagna. Se non il migliore o il più ispirato, sicuramente quello più efficace. Micidiale nell’attacco all’avversario: ”Il problema non è che John McCain non abbia a cuore i problemi che assillano gli americani. Il punto è che non li conosce e non li capisce”. Specifico e anche un po’ populista, nell’elencare le cose che intende fare una volta eletto, dai tagli fiscali per il 95% delle famiglie che lavorano, all’impegno di affrancare entro 10 anni gli USA dalla dipendenza dal petrolio mediorientale, investendo 150 miliardi di dollari nelle energie alternative». [22] La moglie ha già fatto sapere: «O Barack ce la fa questa volta o non riproverà più. Troppa fatica, troppi sacrifici». [23]