Sergio Romano, Corriere della Sera 1/11/2008, 1 novembre 2008
Mi sembra che per una questione di pudore – o di sensibilità – i giornali non affrontino di petto la questione cruciale delle elezioni presidenziali negli Usa, ossia quella razziale
Mi sembra che per una questione di pudore – o di sensibilità – i giornali non affrontino di petto la questione cruciale delle elezioni presidenziali negli Usa, ossia quella razziale. Intanto trovo interessante – perché espressione di una certa mentalità – che si continui a definire «nero» Obama, quando in realtà è «mulatto». Infatti uno dei due genitori era bianco, la madre. La mia non è una puntualizzazione sterile. Infatti parte da un’osservazione empirica: nella società occidentale la stratificazione dei ceti sociali avviene per linea paterna. E cioè: se un uomo di alto livello sposa una donna di livello medio o basso i loro figli godranno dello status del padre, non della madre; mentre nel caso in cui il livello più basso sia quello del padre, la madre non sarà in grado di innalzare il livello dei figli al proprio. E fin qui non abbiamo ancora preso in considerazione la questione della cosiddetta «razza», e la variabile che essa rappresenta. Se analizziamo il secondo caso, quello cioè in cui a godere di uno status superiore sia la madre, quanto detto prima, ossia che essa non sia in grado di «sdoganare» i figli innalzandoli al proprio livello, vale a maggior ragione quando la madre in questione sia nera. Ma l’influenza della «razza» gioca un ruolo così forte da mettere in crisi anche la logica paterlineare di cui si parlava prima: infatti, se a possedere un ruolo sociale superiore nella coppia è l’uomo, anche se lui è bianco, ebbene, non può innalzare al proprio livello i figli nati da una relazione con una «nera». Figuriamoci quindi se può farlo un padre di colore, ammesso e non concesso che esista il caso in cui egli si possa considerare di livello superiore alla moglie se lei è bianca quale che sia lo status sociale della donna, perché questa, appunto, è la questione. Nel caso di Obama tutte le variabili giocano contro: la madre non avrebbe potuto innalzare al proprio livello il figlio anche se fosse stata sposata con un partner di ceto inferiore bianco; figuriamoci con uno nero (straniero e africano) come era nel suo caso. Obama parte insomma con un simile enorme svantaggio agli occhi della popolazione americana. vero infatti che gli Stati Uniti sono il Paese delle occasioni. Ma, purtroppo, non bisogna esagerare. Fabrizio Amadori fabrizio_amadori@yahoo.it Caro Amadori, Nelle elezioni americane esiste effettivamente una incognita. Per quanto utili e scrupolosamente realizzati, i sondaggi non riescono a misurare il pregiudizio razziale. Dietro le risposte di coloro che si dichiarano incerti potrebbe esservi un sentimento che nessuno osa proclamare. I pregiudizi sono politicamente scorretti e quindi inconfessabili, ma sono altresì, soprattutto in certi settori della società americana, duri a morire. Accanto a quelli antichi vi è poi il pregiudizio raffinato e ipocrita di chi sostiene che Obama, figlio di un nero keniota e di una donna americana, è diverso dai discendenti degli schiavi e quindi «meno americano». Queste elezioni sono interessanti anche perché ci diranno con maggiore precisione quale sia lo stato dei rapporti fra neri e bianchi a più di quarant’anni di distanza dalle leggi con cui la presidenza Johnson ha dato un duro colpo alla sostanziale apartheid che caratterizzava allora la società di alcuni Stati meridionali della Federazione americana. Una osservazione, caro Amadori, sulla parola mulatto che lei usa per Obama. Come altre espressioni analoghe (meticcio, mezzo sangue) la parola è ormai inutilizzabile perché ricorda l’epoca in cui le potenze coloniali consideravano i mulatti un gruppo intermedio a cui era possibile affidare compiti più impegnativi di quelli che venivano generalmente attribuiti ai neri. Tenga presente, inoltre, che sono assai pochi i neri americani che non hanno parecchie gocce di «sangue bianco». Sulla diversa importanza del padre e della madre temo che lei abbia ragione. La letteratura romantica è ricca di vicende familiari che le danno ragione. La giovinetta nobile che si innamora di un operaio o di un artigiano, perde il suo originale status sociale; mentre l’uomo nobile e ricco può sposare una donna umile o addirittura, come in Russia prima dell’abolizione della schiavitù, una serva della gleba, e fare di lei una gentildonna. Ma sono sempre più frequenti, ormai da molti anni, i casi in cui la donna di successo diventa protagonista e lascia nell’ombra, in alcune circostanze, il marito. Molto dipende naturalmente dall’intelligenza dei coniugi. Negli anni Cinquanta, quando l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma era una donna, la scrittrice Clare Booth Luce, capitava spesso di vedere dietro di lei, nei grandi ricevimenti, un signore alto, anziano, molto cortese e discreto. Era Henry R. Luce, fondatore e proprietario di Time e Life, uno dei più potenti editori americani. Non si sarebbe mai permesso di rubare alla moglie, in quelle occasioni, il ruolo che le spettava.