Massimo Gramellini, La Stampa 31/10/2008, pagina 1, 31 ottobre 2008
Corsivo. La Stampa, venerdì 31 ottobre Siamo un milione, urla al tg uno studente romano. E non mi colpisce che usi il numero in maniera disinvolta (magari erano duecentomila), ma che lo urli come se essere tanti fosse l’unica cosa che conta
Corsivo. La Stampa, venerdì 31 ottobre Siamo un milione, urla al tg uno studente romano. E non mi colpisce che usi il numero in maniera disinvolta (magari erano duecentomila), ma che lo urli come se essere tanti fosse l’unica cosa che conta. Di ogni manifestazione solo questo ormai rimane nella memoria. Il numero. Autentico, supposto, conteso o surreale come i due milioni e mezzo del Circo Massimo, che per starci tutti avrebbero dovuto essere magri come Fassino. La dittatura del numero è una regressione recente, ma assimilata così in fretta che a molti sembrerà incredibile sia esistito un tempo in cui il numero non contava nulla. Eppure la storia dell’umanità è stata per millenni una storia di minoranze decise: ad assaltare la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno furono in pochi. Eppure il capitalismo degli anni d’oro si basava sull’assunto di Cuccia: «Le azioni si pesano, non si contano». Eppure i romanzi di Gadda diventarono dei classici avendo molto meno pubblico di un programma della Ventura. La quantità non era ancora sinonimo di qualità. Le maggioranze erano «silenziose» per antonomasia. E quando non lo erano diventavano pericolose. Oppure ottuse: quanti saranno stati in piazza Venezia nel giugno 1940 ad applaudire la dichiarazione di guerra? Un milione, forse due milioni e mezzo. Ma il numero non rende quell’ovazione più civile delle lacrime con cui l’avranno ascoltata alla radio i cenacoli ristretti dei dissidenti. Sarà per questo che non mi sono mai piaciuti i cortei e le processioni. Per citare l’introverso Paolo Giordano, ai ragazzi che si adeguano alla retorica della massa preferisco la solitudine dei numeri primi. Massimo Gramellini