Francesco Bonami, Panorama 6/9/2008, pagina 207, 6 settembre 2008
Panorama, 6 novembre Negli anni Ottanta un ingegnere civile indiano, Veer Bhadra Mishra, fu incaricato di purificare il fiume Gange
Panorama, 6 novembre Negli anni Ottanta un ingegnere civile indiano, Veer Bhadra Mishra, fu incaricato di purificare il fiume Gange. Il poveraccio, indù praticante, si mise le mani nei capelli. Il Gange è il fiume sacro degli induisti: come si fa a purificare un fiume già puro? Com’è possibile togliere l’inquinamento senza togliere all’acqua anche la sua essenza spirituale? Lo stesso dilemma, anche se con contraccolpi meno pericolosi, ha dovuto affrontare il direttore e presidente del Louvre, Henri Loyrette, succeduto nel 2001 al famoso Pierre Rosenberg. Il Louvre, il museo più visitato al mondo con i suoi 8 milioni di visitatori all’anno, è sacro come il Gange. Come il famoso fiume ha però molti problemi, principalmente finanziari. Che cosa fa, quindi, un museo classico e pubblico costretto a navigare nelle acque del Ventunesimo secolo infestate dai pirati del marketing, da quelli delle mostre blockbuster e dal veleno della comunicazione e dell’immagine? possibile salvare l’anima del Louvre e al tempo stesso fare un bell’intervento di chirurgia plastica al corpo e costruire un salvadanaio più grande? Nessuno avrebbe immaginato che anche un colosso culturale come il museo che ospita La Gioconda avrebbe avuto questi problemi. Eppure, l’aggressiva politica di gestione di Loyrette fa proprio pensare che il morbo di Krens, dal nome del famoso direttore del Guggenheim Museum di New York, abbia contagiato il sistema nervoso del museo parigino. D’altronde come può un museo pubblico che dipende da fondi statali tenere alto il proprio nome quando questi fondi diminuiscono anche del 70 per cento? In Italia, dove il direttore degli Uffizi è pagato come un professore di scuola media, il problema non si pone. Ma in Francia, dove la cultura non è la cenerentola dell’amministrazione pubblica ma il fiore all’occhiello dell’immagine nazionale, un museo come il Louvre non può permettersi di chiudere sale o fermarsi davanti alla costruzione della piramide di vetro di Ming Pei come gli Uffizi si fermano davanti alla pensilina di Arata Isozaki. Il Louvre è il Louvre e nulla potrà mai fermarlo. Ma per fare andare avanti una macchina del genere non si può far conto solo sulla ricchezza della propria arte. I cataloghi devono essere perfetti, le audioguide eccellenti, il personale sempre più specializzato e aggiornato. Toccare il Louvre è pericoloso come toccare il Gange. Tuttavia, sebbene il cinquantaseienne Loyrette un giorno sì e uno no vada sulle pagine dei giornali attaccato per la sua politica intraprendente, il museo sembra lanciato sul binario del futuro, costretto come molti altri al mondo a fare i conti con una realtà culturale sempre più complessa, competitiva, globale e ricca. Thomas Krens ha trasformato il Guggenheim in una grande multinazionale senza che nessuno abbia mai potuto interferire con le sue strategie megalomani e spesso fallimentari. A Salisburgo, a Rio de Janeiro e persino a New York ci sono stati progetti annunciati e mai realizzati; quando lo sono stati, come a Las Vegas, sono falliti finanziariamente. Pochi però si sarebbero aspettati la stessa intraprendenza da un direttore di un museo nazionale francesce. L’annuncio dell’accordo con Abu Dhabi per un Louvre fra le dune disegnato da Jean Nouvelle che porterà nelle casse del museo quasi 1 miliardo di euro in trent’anni è stato uno shock per l’establishment francese. Mai ci si sarebbe aspettati che un’austera istituzione come il Louvre cedesse alle lusinghe degli emiri. Eppure è accaduto. D’altronde, con uno stato che copre solo il 50 per cento dei 350 milioni di euro necessari alla gestione annuale del museo, da qualche parte il direttore i soldi li deve pur trovare. Loyrette sembra impermeabile alle critiche quando si tratta di portare fondi e visibilità al proprio museo. Così, dopo l’emiro è stato il turno dello sceicco, il principe saudita Alwaleed bin Talal, che ha finanziato con 54 milioni di dollari la nuova ala di arte islamica che il Louvre ha iniziato a costruire lo scorso luglio. L’obiettivo di Loyrette è trasformare il Louvre da un punto di vista finanziario in qualcosa come il Metropolitan Museum di New York, con un fondo privato milionario da dove potere attingere le risorse per fare funzionare il museo senza dipendere dalla politica pubblica e dai budget statali. Se da un punto di vista finanziario nessuno ha da ridire sulle strategie del direttore, molti invece si oppongono alle contropartite usate per far entrare i soldi nelle casse del museo. Nel 2006, quando fu consentito alla troupe di Hollywood di filmare in orario di chiusura le scene del Codice da Vinci, la gente urlò allo scandalo. Loyrette fece notare che già in precedenza altri registi avevano filmato nelle sale del museo, a partire dal grande Jean-Luc Godard che fece correre gli attori fra sculture e dipinti. Altro scandalo respinto quello sull’affitto del nome del museo nel caso di Abu Dhabi. Ma se il nome del Louvre può essere affittato senza problemi concreti e con un eccellente ritorno finanziario, più complicato e pericoloso è affittare i capolavori del museo, cosa che Loyrette ha già iniziato a fare scontrandosi con le ire dei conservatori, non politici ma artistici. Spostare grandi capolavori che per secoli non si sono mai mossi può avere conseguenze disastrose sulla conservazione. Caso clamoroso il progetto di mostra dei 140 capolavori del museo francese che dovevano arrivare a Verona in cambio di 4 milioni di euro e che, per una combinazione di polemiche sulla stampa francese e di fraintendimenti economici da parte dell’amministrazione veronese, è andato in fumo. La critica non è soltanto legata alla salvaguardia delle opere d’arte, è anche morale. Spesso quelli che vengono presentati e pagati come «grandi capolavori» sono, se non avanzi di magazzino, opere minori della collezione. Usare quindi il nome del Louvre per offrire al pubblico mostre deludenti è giustamente considerata una politica culturale scorretta e dannosa. Se, da una parte, il Louvre-Gange è obbligato a trovare nuove strade per portare acqua al proprio mulino economico, è anche essenziale che non perda la propria anima, continuando a considerare sia il proprio nome sia la propria collezione come sacri. La vera sfida di Henri Loyrette sarà quindi non quella di trasformare il deserto in una nuova Parigi ma di impedire che Parigi e il Louvre, a poco a poco, diventino un deserto. Francesco Bonami