Stefano Lorenzetto, Panorama 6/11/2008, pagina 71, 6 novembre 2008
Panorama, 6 novembre 2008 Ormai è impossibile stabilire dove finisca la tv e dove cominci Giovanni Minoli
Panorama, 6 novembre 2008 Ormai è impossibile stabilire dove finisca la tv e dove cominci Giovanni Minoli. Al momento della presente intervista, la prima s’era spinta fin sull’uscio di casa del secondo, in una piazzetta romana che pullulava di telecamere, daylight, cavi, generatori e sedie pieghevoli da regista. «Spot o fiction, non saprei. Ieri sul set si aggirava Christian De Sica» informa con sincero disinteresse. In totale aderenza al suo programma più fortunato, La storia siamo noi, abita in un convento quattrocentesco che ha richiesto 22 anni di restauri, annesso a una chiesa progettata dagli architetti che costruirono il Quirinale e la fontana di Trevi. L’ordine dei nomi sui campanelli è questo: viceparroco, sacrestia, parroco, Bernabei-Minoli. In salotto c’è ancora un passaggio segreto per accedere all’abside. Il complesso monumentale, noto come il «labirinto del Rinascimento» per via del gran numero di chiostri, scaloni e loggiati, custodisce la tomba di un papa, Eugenio IV. In tempi più recenti fu visitato da altri due sommi pontefici, Giovanni Paolo II e Giovanni Agnelli. «Tutte le volte che m’incontrava, l’Avvocato mi chiedeva: ”Caro Minoli, risiede sempre in quel bel palazzo?”. Provvisoriamente ospite, gli rispondevo». Dalla casa del direttore di Rai educational è passato anche Cesare Romiti. Si affacciò alla finestra, vide l’edificio di fronte che cadeva a pezzi ed esclamò: «Ma quello è nostro, è dell’Ifi!». Da lì l’idea di salvarlo e l’avvio di un ciclo virtuoso che ha portato al recupero delle magioni storiche dell’intera piazzetta. Minoli ha questa confidenza con i potenti dai tempi di Mixer ma non si può dire che ne abbia ricavato soverchi vantaggi per la carriera. Paradossalmente, persino quello che poteva rivelarsi per lui un formidabile atout, Ettore Bernabei, il padre di sua moglie Matilde, l’uomo che ha fatto la tv in Italia, direttore generale della Rai dal 1961 al 1974, s’è tramutato in un handicap a vita, giacché fai fatica a prenderne il posto, o anche solo a diventare direttore di Raiuno, se poi devi decidere l’acquisto delle agiografie di santi e dei kolossal biblici prodotti dalla Lux Vide di tuo suocero. Questo forse spiega perché a 63 anni il massimo esperto della televisione pubblica dica: «Oggi come ieri, non mi sento candidato a nulla». Non ce l’ha fatta neppure quando il premier era Romano Prodi. Per quello che ne so, Prodi non ha mai pensato a me come direttore generale. Se ci ha pensato, non l’ha detto. Infatti ha nominato Claudio Cappon. Idem con Bettino Craxi. Di me s’è sempre scritto: Minoli virgola amico di Craxi virgola genero di Bernabei punto. Invece le virgole vere della mia vita sono: figlio di Eugenio, nipote di Ottavio Minoli, che finanziò Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, e padre di Giulia. La storia delle persone è un po’ diversa da come si racconta. Vuol dirmi che Craxi non fece un pensierino su di lei? Ma neanche come direttore di rete! Arrivai alla direzione di Raidue nel 1994, all’apice della crisi dei partiti, mentre i socialisti venivano uccisi, scelto da Elvira Sellerio, che mi chiamò solo perché apprezzava i miei programmi. L’unica che mi abbia aiutato. Uno di quegli incontri che fanno ben sperare nella vita. E al ritorno dei partiti fui subito cacciato. Mi risulta che abbia avuto modo di esporre le sue idee sulla Rai all’attuale presidente del Consiglio. Non è vero. Però m’è capitato di discuterne con Gianni Letta e di sentirlo interessato. E quali sono queste idee? La Rai è una balena ferita e spiaggiata. O si trova un rimorchiatore che la riporta in mare oppure ciascuno se ne taglierà via un pezzo per sé. Silvio Berlusconi è un grande uomo di tv. Sa d’avere il problema di ricostruire un servizio pubblico per il cittadino, non per il consumatore. La tv è sempre pedagogica, dà l’orientamento al sistema dei valori, vende punti di riferimento. Se usata male, ha un potere distruttivo superiore a quello della bomba atomica, con effetti ritardati nel tempo, come dice l’anchorman americano Dan Rather. Qui rischiamo di creare una generazione di zombie ingovernabili. Per il rimorchiatore lei ha fatto l’esempio di Sergio Marchionne. Sì, l’importante è che sia uno solo, non dieci rimorchiatori che tirano in direzioni diverse. Lo chiamino direttore editoriale, o amministratore unico, o direttore generale, non ha importanza. Basta che distrugga i potentati burocratici che frenano la creatività e rimetta al centro il prodotto. questo che ha fatto Marchionne. Ha ripescato negli archivi del Lingotto i disegni della Cinquecento, li ha sottoposti a restyling e ha salvato la Fiat. Nella cineteca della Rai di Cinquecento ne abbiamo 500. Eppure andiamo a comprare La prova del cuoco dalla Endemol. Sa quanti format simili ha prodotto la Rai in passato? Sei! Da A tavola alle 7 con Ave Ninchi a Che fai, mangi? con Enza Sampò. I cloni copiano persino le inquadrature. Solo che siamo rimasti in pochi ad accorgercene, perché nella Rai non si tramandano più i saperi professionali. Certo Antonella Clerici si presenta meglio di Ave Ninchi. Allora prenda Che tempo che fa di Fabio Fazio. Tre interviste con un comico in mezzo. Sarà mica così difficile... Capiamoci, io non ce l’ho con la Endemol o con la Magnolia, ma con la Rai che affida il 60-70 per cento dei programmi a società di produzione esterna senza ricavarne alcun valore aggiunto. Abbiamo il palinsesto identico alla Mediaset. Non offriamo nulla di diverso. Che rimorchiatori vede in giro? Due o tre uomini ci sono. E forse anche una donna. Ma i nomi li tengo per me. Non voglio rovinare nessuno. Chi è stato il miglior direttore generale della Rai? Biagio Agnes. L’unico che ha investito sui contenuti e sulle teste. O la Rai è un’azienda di persone o non è. E il peggiore? Pier Luigi Celli. Il più incredibile dei supermanager per caso. S’è concentrato sulle tecnologie anziché sul prodotto. Peccato che l’abbia capito solo dopo essersene andato. Lei è stato l’unico a difendere Agostino Saccà per la vicenda delle telefonate con Berlusconi intercettate dalla procura di Napoli. Perché l’ha fatto? L’ho fatto e lo rifarei, nonostante a suo tempo avesse osteggiato il mio rientro dopo l’esperienza alla Stream. Ho seguito il consiglio di mia nonna Maria: «Giovanni, di’ sempre la verità. Tanto non ci crede nessuno». M’è sembrata un’enorme ingiustizia quella perpetrata ai danni di Saccà. Se c’erano le prove di favoritismi, dovevano licenziarlo. Invece l’hanno trasferito. Telefonate ne fanno e ne ricevono tutti. Quelle che ho letto sui giornali non hanno inciso nelle scelte aziendali. E allora dov’è il reato? Giampaolo Pansa la considera il suggeritore mediatico di Walter Veltroni, come Maurizio Costanzo per Massimo D’Alema. Una fola. Walter è un amico cresciuto a pane e tv: nella Rai suo padre Vittorio fu lo scopritore di Mike Bongiorno e Sergio Zavoli. Figurarsi se ha bisogno di un consigliere televisivo. Aldo Grasso sostiene che Youdem.tv del Pd ha un impatto visivo di stile bulgaro. Da tanti anni ho smesso di prendere in considerazione le opinioni di Grasso. Non vorrei trovarmi d’accordo con lui proprio stavolta. Come mai tanta ruggine col critico televisivo del «Corriere della sera»? Credo che tutto risalga alla sua infelicissima esperienza di direttore della radio pubblica, giubilato per incapacità dopo meno di un anno. Una frustrazione da cui non s’è più ripreso. Avrà ricevuto anche lei la lettera del dg Claudio Cappon che lamenta un calo pubblicitario del 48 per cento. Che economie pensa di fare? A fronte di un budget di 14-15 milioni di euro, limato anno dopo anno fino agli attuali 10, ho appena portato a casa 12 milioni per produrre in accordo con la Regione Siciliana le 230 puntate della fiction Agrodolce. Senza contare le 300 persone che hanno trovato lavoro a Termini Imerese. Sì, ma il buco negli spot è di 40 milioni. L’asservimento alla cultura del mercato non ha senso per un servizio pubblico. Potremmo farci aiutare dall’Enel a riscuotere il canone con un sistema basato sulla rete elettrica e in tal modo azzerare l’evasione. La nostra emergenza sono i programmi, non i numeri. La Sky ha guadagnato 4 punti di share in 5 anni e moltiplicato per 10 gli introiti grazie alla qualità percepita. La tv deve formare o intrattenere? Formare, informare e intrattenere. Il problema è il giusto mix. Facciamolo. Informare al 50 per cento, intrattenere al 50 per cento e formare al 100 per cento. Dipendesse da lei, manderebbe in onda «L’isola dei famosi»? No. Perché no? Perché no. I reality show non sono prodotti da servizio pubblico. Intrattengono. Ma non formano. Scusi, non fu lei a lanciare il «Grande fratello» in Italia? Un’idea che fruttò a Rupert Murdoch 400 miliardi di lire d’incremento di valore del brand che oggi si chiama Sky. Valutazione delle banche d’affari. E non si vergogna? Ero il direttore della Stream e questa è la logica della tv commerciale. Ammetterà però che Marina La Rosa, la «gatta morta», sembrava Sofia Loren rispetto ai concorrenti di adesso. Bernabei fa parte dell’Opus Dei. C’entra qualcosa con la puntata di «La storia siamo noi» su Josemaría Escrivá? Mio suocero è un sant’uomo di 87 anni. Non ha mai messo becco nel lavoro che faccio. Giuseppe Corigliano, portavoce dell’Opera, nel libro «Un lavoro soprannaturale» scrive d’essere venuto a nuotare nel mare di Filicudi, dove lei ha la seconda casa, per convincerla a fare quell’inchiesta. Pippo è un gran simpaticone, ma la decisione di occuparmi dell’Opus Dei la presi da solo sull’onda delle polemiche per Il Codice da Vinci. Chissà le dietrologie nei corridoi Rai. Non li frequento. Vivo negli ex studi della Dear Film, la frontiera inaccessibile dell’impero. Sono in quarantena, come gli emigranti italiani a Ellis Island. Rai educational è marginalizzata rispetto ai risultati che ottiene. Vince tutti i premi ma è solo la quintessenza dell’ipocrisia, una foglia di fico sempre più piccola. Come mai non ha più fatto le interviste faccia a faccia con i politici? Antonio Marano, direttore di Raidue, le voleva, ma Bruno Vespa s’è opposto. Adesso anche Berlusconi ha capito che i talk show deprimono i contenuti, riducendoli a slogan e uccidendo la politica, e ha ordinato ai suoi di evitarli. Nell’intervista si crea il contraddittorio, nel talk show vince solo il conduttore. I politici dovrebbero andare in tv non per farsi vedere ma quando hanno qualcosa da dire. Chi è il giornalista che stima di più? Indro Montanelli. Vivente, intendevo. Ezio Mauro. Ma c’è un direttore opinionista che incarna le doti migliori di entrambi: Giuliano Ferrara. Andrebbe a dirigere un quotidiano? Mai. E neppure un telegiornale. Non ne sarei capace. Io sono un televisionista, non un giornalista. Da un quarto di secolo faccio due mestieri in uno: l’autore-conduttore e il dirigente televisivo a 360 gradi. Ho sulla coscienza da Quelli della notte di Renzo Arbore a Aboccaperta di Gianfranco Funari. Anche Bianca Berlinguer, Milena Gabanelli, Sveva Sagramola, Myrta Merlino, Marianna Madia... Gianni Minà e Piero Marrazzo no? Mi considero un allevatore di nuovi talenti, è la terza generazione che tiro su. Avere nel curriculum Mixer o La storia siamo noi sostituisce le raccomandazioni. Ha mai subìto censure? Una sola volta. A Mixer avevo introdotto i sondaggi della Makno per dimostrare che le star dello spettacolo stavano diventando più importanti dei personaggi pubblici. Erano i tempi di Pronto, Raffaella? col quiz sul numero dei fagioli contenuti nella damigiana e Carrà si piazzò al primo posto, superando Sandro Pertini e Giovanni Paolo II. Commisi l’errore di avvisare il Radiocorriere Tv. Il direttore generale bloccò la messa in onda. Ne feci una malattia. Va bene che la storia siamo noi, ma preferisce l’Italia di ieri o quella di oggi? Quella di domani. Stefano Lorenzetto