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 2008  ottobre 31 Venerdì calendario

NEW YORK

Ha due uffici, uno a New York, l’altro a Londra con oltre seicento clienti – vivi e defunti – tra i quali Roth, Rushdie, Bellow, Sarkozy, Gore, Muños Molina, Murakami, Nafisi e Pamuk. In Italia rappresenta, tra gli altri, Calvino, Calasso, Baricco e Magris. Ma se i rivali lo considerano l’agente più potente e pericoloso degli States, nel suo curriculum vitae Andrew Wylie assomiglia più a un «businessman gentiluomo» che non a uno squalo (come è soprannominato) della carta stampata. Sessantunenne, rampollo di una vecchia dinastia Wasp del New England (madre di Boston, padre editor della casa editrice Houghton Mifflin), dopo essersi laureato in Letteratura francese ad Harvard, Wylie si è trasferito a New York negli anni 70, entrando subito nella cerchia degli intimi di Andy Warhol. Dopo dieci anni di vita bohémien, nel 1980 ha fondato l’omonima agenzia letteraria che vanta il più alto numero di premi Nobel e Pulitzer al mondo.
Alcuni dei progetti più attesi e ambiziosi nell’editoria mondiale degli ultimi anni sono suoi. Dalle « carte» di Arthur M. Schlesinger Jr. – cedute lo scorso novembre alla New York Public Library – a Beginners, la versione integrale e inedita del capolavoro di Raymond Carver
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, in uscita da Einaudi nel 2009. Da L’avvocato: The Life of Gianni Agnelli di Vendeline von Bredow (cui John Elkann ha accordato l’accesso agli archivi di famiglia) a
The Third Reich di Roberto Bolaño. Ma l’opera forse più attesa è The Original of Laura
di Vladimir Nabokov, bersaglio di accese polemiche da quando Dimitri, figlio del grande scrittore, ha deciso di darlo alle stampe, violando il diktat paterno («Distruggilo! »). «Se fossi Dimitri mi chiederei perché, se davvero voleva distruggerlo, non l’ha fatto con le proprie mani», dice Andrew Wylie. Esistono però eccezioni. «Prima di morire, Saul Bellow stava scrivendo un libro,
All marbles still accounted for, mai terminato. Solo Phil Roth e la moglie di Bellow, Janis, l’hanno letto. Janis non vuole pubblicarlo, su richiesta di Saul e probabilmente è la decisione giusta ».
Wylie, che dice di considerarsi un ebreo onorario («sono l’unico Wasp in un
business prevalentemente di ebrei»), non vuole addentrarsi nella polemica sul Nobel non meritato dagli americani «perché troppo provinciali». «La nostra letteratura non è mai stata più sana e apprezzata », precisa però, seduto alla scrivania del suo centralissimo ufficio sulla 57a Strada. «E Philip Roth meritava di vincerlo». La sua decisione di creare The Wylie Agency è nata proprio dal desiderio di correggere questo tipo di svista. «Quando iniziai, l’editoria era una macchina che sfornava mediocri bestseller
per i colossi della distribuzione – racconta ”. Chi, allora, rappresentava gli scrittori veri era condannato a vivere in miniuffici sporchi e bui, con piante morte alle finestre e impiegati grassi, depressi e alcolizzati ». La sua crociata è stata subito chiara: «Coniugare
business e qualità. Puntando tutto sugli scrittori di valore, inossidabili col tempo, gli Hemingway, Fitzgerald, Calvino e Borges, a scapito di falene quali Tom Clancy, Michael Crichton, Stephen King, Dan Brown».
Dietro la sua crociata in nome della letteratura con la «L» maiuscola c’è anche un motivo egoistico: «Passare il resto della mia vita leggendo buoni libri, senza rischiare di finire da senzatetto su una panchina a Central Park». Ma l’editoria newyorchese all’inizio gli ha fatto la guerra. «Mi trattavano con sdegno e disprezzo, considerandomi aggressivo, arrogante, stridente, freddo e calcolatore». Il suo «stile» nel procacciarsi gli scrittori famosi, spesso rubandoli ad altri, è leggendario. Come quando negli anni 80 telefonò a Rushdie – che da tempo cercava invano di corteggiare – invitandolo a prendere un drink «la prossima volta che mi trovo a Londra». Anche se Rushdie non gli promise nulla, Wylie corse all’aeroporto e prese il primo aereo per Heathrow. Lo scrittore di Versi satanici non si fece trovare e lui tornò all’attacco più tardi, chiamandolo da Karachi. «Quando gli dissi che sarei venuto a Londra, mi chiese che diavolo stessi facendo in Pakistan. "Sono qui a rappresentare Benazir Bhutto", risposi, catturando immediatamente il suo interesse».
Il resto è storia. Se ama un autore, Wylie è disposto a tutto pur di averlo. Nel 1995 «scippò» Martin Amis alla sua agente Pat Kavanagh, moglie di Julian Barnes, grande amico di Amis. Da quel giorno Amis e Barnes non si parlano. Ma la vera sfida per lui è anche un’altra: «convincere gli scrittori, spesso misantropi nati, che è meglio pagare un agente piuttosto che rappresentarsi da soli. Ci sono riuscito con Roth – incalza ”. Purtroppo non con Updike e De Lillo». E Bellow? «Credevo tanto in lui che comprai il privilegio di rappresentarlo dai suoi due vecchi agenti. Una vera cifra, ma ne è valsa la pena». I suoi rivali sapevano che la sua «rivoluzione» avrebbe avuto un impatto sulle quotazioni dell’editoria. «Trent’anni dopo la mia scommessa si è rivelata azzeccata. Penso di aver contribuito a diffondere il principio secondo cui la letteratura alta, anche se meno commerciale all’inizio, vale infinitamente più dei bestseller destinati a essere seppelliti con i loro autori».
Ciò significa anche lavorare mesi e mesi senza un bestseller. «Il mio unico criterio di scelta è la qualità. Se Dan Brown mi chiedesse di rappresentarlo gli direi di no. Gli autori commerciali tendono a divorare l’intera casa editrice. Doubleday con Il Codice da Vinci
e Bloomsbury con Harry Potter ne sanno qualcosa. Dopo essere stata la casa di Hemingway, Fitzgerald e Thomas Wolfe, Scribner è finita con Stephen King e Linda Fairstein, sacrificando la qualità in nome dei soldi facili». Non tutti la pensano come lui. In una recente intervista, Peter Olson, ex direttore editoriale di Bertelsmann oggi docente ad Harvard, sostiene che «ciò che mi manca di più dell’ambiente editoriale è non poter essere alla Random House per vedere il prossimo Dan Brown». «Che spudoratezza patetica », lo rimbrotta Wylie. Per fortuna l’Europa è un’altra cosa. «L’impero Gallimard in Francia, Einaudi in Italia, Hanser Verlag in Germania la pensano come me: ormai siamo un movimento globale».
Di recente Wylie ha acquisito il patrimonio letterario di Chinua Achebe, di cui quest’anno si celebra il cinquantenario dall’uscita di Things Fall Apart. «Quel libro vende 250 mila copie all’anno solo negli Usa – dice ”. La dimostrazione che la qualità, alla lunga, è anche più proficua». Il suo segreto? «Ognuno dei miei clienti è speciale, importante e unico. Do a tutti la stessa attenzione e non mi è mai successo di non rispondere a una chiamata». Ciò non significa socializzare con i suoi scrittori. «Voglio che Roth sia contento del mio lavoro, piuttosto di sentirlo dire che siamo amici. E comunque sono un tipo socialmente inetto: vado a letto presto e ai party non so cosa dire». Ha mai avuto la tentazione di rappresentare qualcuno di molto commerciale? «No, perché dovrei essere a sua completa disposizione come lo sono per Philip. Un mio amico che rappresentava Danielle Steel un giorno ricevette la chiamata della scrittrice che gli ordinava di correre dal suo pellicciaio per redimere una lite. Si dimise».
Le accuse di snobismo non lo sfiorano: «Non mi preoccupo che McDonald abbia successo, però non ci mangerei mai». Una delle sue grandi passioni è l’Italia. «Ci vado almeno sei volte all’anno – spiega ”. un Paese cha adoro da quando, ad Harvard, tradussi Giuseppe Ungaretti, invitandolo negli Usa per leggere la mia traduzione. Mia moglie è di origine italiana e i miei figli tifano per la nazionale». Wylie pensa che l’editoria italiana sia all’altezza di quella francese, tedesca e olandese: «Forse solo quella spagnola è più viva». Tra i suoi romanzi preferiti degli ultimi tempi annovera La scoperta dell’alba, di Walter Veltroni, «uno scrittore – dice – che mi piacerebbe molto rappresentare».