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 2008  ottobre 30 Giovedì calendario

PECHINO

L’uomo che odiava i suoi piedi si rimette in cammino. L’America. Anche per lui l’America: Liu Xiang va a chiedere consiglio ai medici, ne vedrà quattro, cinque, sei. Cerca di capire che cosa c’è dietro il dolore atroce che ha spazzato via dall’Olimpiade l’atleta che più di tutti incarnava l’orgoglio di una nazione alla fine, comunque, dominatrice. Il 18 agosto, mentre il tendine d’Achille lo faceva piangere per il male e la disperazione, era ancora il campione olimpico di Atene. Un attimo dopo, finita la batteria, era una ex medaglia d’oro. Una mattina assolata che non è mai finita: «Nella sua mente c’è un’ombra» ha detto al China Youth Daily
uno dei capi dello sport di Pechino, Feng Shuyong. Liu, 25 anni, ha dietro di sé famiglia, amici, un allenatore che tutti videro singhiozzare come lui, «però le Olimpiadi hanno avuto un impatto psicologico pazzesco, se serve – ha aggiunto Feng – gli daremo uno psicologo».
Lo divora il ricordo. Forse anche il senso di colpa nei confronti di un intero popolo che aspettava il replay del trionfo del 2004. Lui, allora, voleva prendere a calci i suoi piedi, «era per quello che prendevo a calci il muro, prima di provare a correre. Volevo neutralizzare il dolore. Ma soprattutto odiavo. Odiavo me stesso, odiavo i miei piedi. Mi ero allenato 4 anni, solo io so quanto, e finiva così». Liu ha avuto bisogno di un intervistatore amico per aprirsi, il racconto – quasi un’autoanalisi – è finito sul magazine
dell’edizione asiatica del Financial Times, il suo volto inciso in un bianco e nero nitidissimo, come se gli sponsor non lo stessero abbandonando. O, almeno, come se non ripensassero a un testimonial testimone del proprio fallimento: «Non ci penso. ovvio che ci possa essere un calo della pubblicità legata al mio nome. Gli sponsor potranno anche essere umanamente dispiaciuti per me, ma fossi stato al loro posto neanch’io avrei firmato contratti». Più volte, nel corso dell’intervista, Liu chiede perdono agli spettatori delusi. Spiega di non aver voluto forzare per paura di peggiorare irrimediabilmente la situazione, giustifica chi lo ha criticato, ma dice delle centinaia di sms di incoraggiamento. Eppure l’ombra evocata da quegli stessi vertici che l’avevano programmato come una macchina da medaglie, affiora spesso: «Sembrava mi trovassi in un buco nero dove non udivo il rumore del mondo. Sembrava un sogno, anche, ma un sogno che andava in pezzi. Avevo la testa vuota». Il 21 agosto, alla finale dei 110 che nel 2004 fu sua, era davanti alla tv, «immaginavo cos’avrei fatto se fossi stato lì» e al suo posto c’era Dayron Robles, «lo devo ringraziare, il record olimpico me l’ha lasciato». E poi l’ombra, ancora l’ombra. Che partiva da lontano, da Atene, e s’ingigantiva man mano che si avvicinavano le Olimpiadi in casa, a Pechino: dopo la Grecia «il mio mondo era cambiato completamente. Pressione ovunque, pressione sempre». La musica, i libri, i dvd, le partite a carte con i compagni e le goliardate di penitenza: cancellate. Se ne riparla per Londra 2012, dove Liu conta di esserci, perché «avrò solo 29 anni, penso di poter competere contro chiunque se guarisco».
Il suo amico Yao Ming, stella del basket Nba e di Shanghai come lui, gli ha trovato un appuntamento con un luminare di Houston, dove gioca nei Rockets, e Liu ricambierà regalandogli due modellini dei robot «Transformers». «Se guarisco...». Il suo fedele allenatore e mentore, Sun Haiping, non ne è così sicuro, «Liu si sta riprendendo bene, ma è ancora lontano dal poter gareggiare». Quanto odio meritano i suoi piedi lo dirà l’America, forse.
Marco Del Corona