Roberto Giovannini, La Stampa 30/10/2008, 30 ottobre 2008
La Stampa, giovedì 30 ottobre 2008 MANZANO - UDINE La MegaSedia, alta venti metri, 23 tonnellate di legno, sta ancora lì, come un totem che ricorda la passata opulenza, un idolo gigante a cui votarsi perché salvi un’intera industria e un territorio travolto dalla Grande Paura
La Stampa, giovedì 30 ottobre 2008 MANZANO - UDINE La MegaSedia, alta venti metri, 23 tonnellate di legno, sta ancora lì, come un totem che ricorda la passata opulenza, un idolo gigante a cui votarsi perché salvi un’intera industria e un territorio travolto dalla Grande Paura. Siamo proprio al centro del «Distretto della Sedia», un gruppo di comuni tra Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo, 250 chilometri quadrati per nemmeno 40.000 abitanti, diventati famosi perché qui si producono 40 milioni di sedie l’anno. La metà delle sedie prodotte in Europa, il 20% delle sedie prodotte nel mondo. Montagne e montagne di sedie che hanno reso questa zona ricca. O meglio: si producevano. Perché quella che era sembrata una l’ennesima invenzione del genio italico – prendere un prodotto «maturo» se non arretrato come la sedia in legno, metterci una capacità lavorativa e una flessibilità imbattibile, e generare un gigante industriale – ormai sembra in crisi nera. Aziende che chiudono a decine, posti di lavoro bruciati, ricchezza che svanisce. La leggenda vuole che il Distretto sia nato più o meno un secolo fa per colpa di una delocalizzazione «ante litteram». I seggiolai stavano oltre il confine segnato dallo Judrio, in Austria-Ungheria; il governo ImperialRegio alzò dazi e tasse, e gli esperti artigiani passarono in Italia per restarci, e prosperare. Da queste parti il lavoro è una cosa terribilmente seria. Come dicevano (in furlan) le nonne alle figlie, sta fer cu li mans è pecjât, stare con le mani in mano è peccato. Ed è meglio fare da sé, che perdere tempo per collaborare con gli altri: qui vige il fasin di be soi, il facciamo da soli. E siccome da sempre qui si fanno sedie, e da sempre sono venuti da tutto il mondo a comprarle, in troppi pensano che fare marketing e inventare nuovi prodotti e nuove linee sia inutile. Come i proprietari di quell’azienda di Premariacco (ormai fallita) che – si racconta – per trent’anni ha prodotto sempre e soltanto un solo modello di sedia. Una sedia. E di un solo colore. Qui c’è un altro detto che sintetizza benissimo questa filosofia: ogni sedia troverà primo o poi il suo occupante (veramente, in friulano si dice in ogni cjadree si sentarà simpri un cûl). Può funzionare per un po’. Finché c’è il committente tedesco che ti telefona, chiedendo 4.000 sedie tra dieci giorni, costringendo tutti a mettersi ventre a terra senza pensare più a notti, sabati e domeniche. Finché va bene che accanto a poche industrie «grandi» e in grado di programmare in modo moderno (solo una dozzina hanno più di 50 dipendenti, con marchi come Calligaris, Effezeta, Ims) ben il 60 per cento del distretto sia fatto da microimprese con 5-7 operai. Del tutto sottocapitalizzate, guidate da operosissimi ex operai o quadri che si sono messi in proprio, gente che produce per conto terzi e senza marchio proprio. Dove nessuno cerca nuovi mercati, si interessa della distribuzione commerciale, pensa a inventare modelli. «Dal 2001 ci si è accorti che c’era qualcosa che non andava», spiega il direttore generale della Banca di Manzano, Dino Cozzi. Sembrava la solita crisi ciclica, ma intanto il mondo cambiava: nuovi agguerriti concorrenti dall’Est europeo, il mercato tedesco in frenata, il supereuro che riduce la competitività, la moda che ha reso meno popolare la sedia in legno a poco prezzo tipicamente prodotta qui, a favore di quella in metallo o in plastica. «La maggior parte degli imprenditori – spiega Cozzi – non ha reagito, non ha cercato strade e prodotti nuovi. I più deboli, i più marginali sono saltati; altri hanno stretto la cinghia in attesa di tempi migliori». Che però non sono mai arrivati. Anzi: è arrivata la gelata mondiale, prima nella finanza, poi nell’economia reale e nei consumi. Il risultato: a metà degli anni Novanta c’erano 1.500 imprese per 12.000 addetti, adesso sono 800 per soli 8.500 occupati. Export e fatturato calano. Da gennaio, hanno chiuso i battenti 40 imprese. Da metà giugno sono stati firmati 25 accordi di cassa integrazione, 6 per la mobilità. Le imprese artigiane ricorrono alle sospensioni di attività, con l’intervento dell’Ebiart, la cassa bilaterale regionale. Il direttore dell’ente, Ermes Canciani, non usa mezzi termini: «Sono dieci anni che non vedevo una crisi simile. Ogni giovedì firmo 10, 13, 15 accordi aziendali di sospensione dell’attività». «Il territorio si sta gradualmente impoverendo – dice Stefano De Zotti, sindacalista della Fillea-Cgil, mentre indica i molti stabilimenti chiusi – molte famiglie non riescono a farcela con gli 800 euro al mese degli ammortizzatori sociali. Tanti lavoratori, magari a bassa scolarità e con più di 45 anni, non trovano sbocchi alternativi, che qualche anno fa potevano essere i centri commerciali. I giovani scappano, il nostro futuro è a rischio». Roberto Giovannini