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 2008  ottobre 30 Giovedì calendario

La Stampa, giovedì 30 ottobre 2008 La Palin indossa pantaloni e, a sorpresa, si candida presidente per il 2012

La Stampa, giovedì 30 ottobre 2008 La Palin indossa pantaloni e, a sorpresa, si candida presidente per il 2012. Dopo settimane di polemiche su spese, gonne, gambe e tacchi, Sarah si è lasciata tutto alle spalle. Entra a grandi passi, senza neppure una spilla, pantaloni stretch neri, e una giacca-maglione ciclamino. Altro che vamp: tenuta classica per donne che lavorano. La sala grida «Saaarah, Saaarah», i riflettori la illuminano come in una discoteca. Ma della bambola delle prime settimane - giacche Valentino, tacchi da 16 e discorsi recitati a memoria - è rimasto solo il sorriso. Scorciate le maniche, presentato il marito, inizia sporgendosi verso la platea, con la secchezza che le donne sfoderano quando sono superstufe delle beghe e intendono mettere un po’ d’ordine. «Dico subito una cosa», e si lancia in 15 minuti di definizioni, battute, slogan, e attacchi a Obama. Veloce come una mitragliatrice, efficiente come una cassiera, efficace come un oratore di razza. A sentirla, la percezione della sua persona cambia, e il sorriso e i capelli, elementi iconici della sua femminilità, si separano da lei come il sorriso del gatto del Cheshire o il cappello di Milan Kundera. Rimane il candidato Palin che ricorda che non è più tempo di show business. La Pennsylvania può andare da una parte o dall’altra per un pugno di voti, manca una settimana e «ho bisogno di voi, di ognuno dei voti che troverete», ordina dal palco. Sarah è arrivata sulla ribalta nazionale e - non illuderti America - Sarah è qui per restare. Più tardi, in un’intervista alla Abc annuncia che, se martedì McCain perderà, lei nel 2012 si candiderà per la nomination del partito. Sbalordendo tutti, compreso lo staff del candidato repubblicano. La platea del comizio batte con un solo ritmo alle sue parole. Per cui se volete sapere di lei, dovete capire anche chi sono loro. Shippensburg è a tre ore da Washington, stretta fra la mesta e lineare terra Amish e i campi di Gettysburg sul cui terreno coperto di sangue si decise l’unità della Nazione. Fattorie, operai, piccole industrie, volti pallidi. Non c’è un nero a cercarlo. Un quadrato di terra, in cui nemmeno una zolla rimane in pace. Obama è appena passato pochi chilometri più in là, Sarah è attesa per il pomeriggio, con l’ostinazione da concerto rock. Per entrare occorre un biglietto. Li distribuisce (su prenotazione) il Comitato repubblicano, ma anche l’università, un paio di chiese e la bottega di stampe e fotocopie di Nancy Godfrey in una traversa di King Street. Nancy da un paio di settimane ha praticamente chiuso per dedicarsi a Sarah (nessuno mai la chiama per cognome), stacca biglietti e conta, bionda, sovrappeso e felice, «Almeno 6 mila!!!». Imbacuccata in coperte e piumini, riscaldata dalle ola e dagli slogan, la folla si scambia opinioni politiche con l’allegria della vera militanza. Soprattutto donne. In due, in gruppo, aggregate in famiglie. Dalle nonne alle nipotine, con le madri fra i 40 e 50 a fare da perno organizzativo: tu vai a prendere la cioccolata calda, tu porta il piccolo in macchina, vai a prendere papà che non sa dove siamo, e tu tira su quel cartellone che non si vede bene! Passa una macchina con un cartello di Obama e le signore fischiano con le dita in bocca. Passa un giovane con un cartello «meglio arrabbiato che con Obama», e una signora fra gli applausi grida «meglio morti che con Obama». Arrivano i media, e li accolgono risate e urla: «Ehi, non volete fotografare la mia bibbia?», rilanciano gli slogan con cui la gente «di città», gli «elitisti democratici», come dicono sfottendo, definiscono quelli come loro, cafoni di campagna, religiosi idrofobi. Diversi cartelli chiedono «drill in America, drill now», nuovi pozzi di petrolio, ma molti semplicemente inneggiano a Lei, Sarah, dipinta come Betty Boop che invece di posare, tira fuori i muscoli: «Tu sì che puoi», Yes you can, è lo slogan prediletto che sbeffeggia Obama. Donne, e ragazze, e l’esercito, e i veterani, e le fattorie indebitate con le banche: dentro lo stadio, è l’arazzo che i vari cartelli compongono. Ci sono le fidanzate dei marines in Iraq, con le foto dei loro ragazzi, e i veterani del Vietnam e della Corea, con i vecchi gradi sui maglioni. Contadini con foto di mucche, e agricoltori con le variazioni del prezzo del grano: «Non salvate Wall Street, salvate l’America». Un mosaico di vite dell’America interna, che si ricompone in un solo punto: la famiglia. E il centro della famiglia è una donna. E’ il mondo nato dalla frontiera, dove le donne imbracciavano il fucile per difendere i bambini. Il loro potere è già qui, nella famiglia e fuori, senza contraddizioni fra femminile ed efficienza. Sarah è la quadratura del cerchio. una donna come tutte, e un leader. Parla ad ognuna, con lo stesso linguaggio. «Lasciatemi dire, non è l’America che deve salvare voi, siete voi che state salvando l’America». «Bisogna essere chiari su chi è Obama» («Obama Hussein, lo sappiamo», grida uno dalla folla). un’oratrice sofisticata: ripete la parola «ideologia», praticamente al bando nel linguaggio politico americano. «Qual è l’ideologia vera di Obama quando chiede una radicale redistribuzione di ricchezza? Ascoltate attentamente, re-di-stri-bu-zione!». «Socialista», gridano dalla platea. Ma Sarah non può dirlo perché sarebbe - in Usa - uno scandalo, un insulto. Ma sa come scavarci intorno: «Redistribuire cosa? La ricchezza di chi? La vostra, di chi produce!» Boato di assenso. «E a chi?». Altro boato che copre la parola non detta: «ai neri». Sarah parla chiaro: «Questo candidato si rammarica che la redistribuzione non sia iscritta nei fini della nazione. Significa che vuole cambiare la Carta dei padri fondatori?». Una rivoluzione è insomma alle porte, e non ce lo dicono. «Quanti qui hanno servito in armi la nostra patria?». Folla di braccia tese. «Vedete: è qui che si fa e si difende l’America. Non a Washington, non nelle università, non nella burocrazia che ferma e divora tutto. Qui». Sarah dice tutto quello che questa America vuole sentirsi dire: che lo Stato è oneroso e inutile, che i democratici sono socialisti mascherati, che Obama aumenterà le tasse, ma anche e soprattutto che tutto quello che non è qui, non è veramente America. Questo solo lei può dirlo: nemmeno McCain, anche lui parte di Washington e di una società che vista da qui sembra inutile e falsa. Solo lei sa come dirlo: a ogni stacco si ferma, balla un attimo sui piedini, si gira, ferma uno nella folla e lo indica come se fosse sola con lui/lei. Momenti di gioia per questa parte del paese che si sente trascurata, sottovalutata, sotto rappresentata. Sarah è la faccia giovane e femminile di frustrazioni e orgogli antichi della gente bianca, decorosa e lavoratrice dell’America di mezzo. La Maggioranza silenziosa che ha deciso di farsi sentire, e rimane la principale incertezza di tutti i poll pre-elettorali. Sarah ha finito. Si lancia tra la gente, evitando le guardie del corpo. Stringe a ognuno la mano, accarezza un bambino, dice qualcosa. Quando arriva a me sorride, mi stringe la mano ed esclama: «Che bella borsa!». Lucia Annunziata