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 2008  ottobre 29 Mercoledì calendario

Fiorenza Cedolins. A febbraio 2008 ha debuttato a Milano come protagonista della ”Madama Butterfly” scaligera

Fiorenza Cedolins. A febbraio 2008 ha debuttato a Milano come protagonista della ”Madama Butterfly” scaligera. *** Elisabetta di Valois alla Scala di Milano nel Don Carlos di Verdi che inaugura la stagione 2008-2009 (Liù nella Turandot a Tel Aviv e, a Bilbao, ha cantato ne Il trovatore). *** Friulana doc di fama internazionale. «Sono nata ad Arduins, un paesino di montagna a metà strada tra Pordenone e il Tarvisio, e ho avuto un’infanzia incantata e libera da Heidi. Ancora adesso adoro gli animali, e mi rilasso nel verde curando il giardino». I suoi «avevano un’officina meccanica nella quale, d’estate, lavoravo anch’io. A 14 anni preparavo le viti di titanio che reggevano il carburatore della Ferrari di F1». Come è arrivata alla musica? «Mio padre, che purtroppo è mancato troppo presto, era un grandissimo creativo. Era rimasto orfano da bambino e non ha avuto la possibilità di studiare che ho avuto io. E poi, arrivare da Arduins alla Scala è come andare dalla Terra alla Luna. Il nostro mondo era quello rurale arcaico della montagna. Quelle sono le mie radici. Quella è la mia tempra. Uno dei miei nonni, che ha fatto il militare con Carnera, compie cent’anni a novembre. E’ stato il terremoto del 1976 a cambiarmi la vita. Nei nostri paesi non c’erano più scuole, avevamo perso la casa. In dieci anni, fino all’86, abbiamo traslocato undici volte passando da una tenda militare a una roulotte, e poi ancora a una baracca di legno. Mamma e papà hanno chiesto le borse di studio messe a disposizione dalla Regione per mandare me e mia sorella Maura in collegio, a Udine. Era il solo modo per farci continuare gli studi. Ma mi sentivo morire in città e tra ragazze ”bene”. Con il senno di poi è stata un’esperienza utile, mi ha permesso di sentirmi a casa mia dovunque. Ma mi è costata. Sono tornata a casa arrivata in seconda magistrale. Andavo a scuola in autobus partendo da Arduins alle 6 della mattina e tornando dopo le 16. Mi sono ritrovata con due materie a settembre: latino e filosofia. Così ho cambiato strategia. Avevo un fidanzatino, un caro ragazzo, musicista pure lui, con una famiglia molto affettuosa. Vivevano a Spilimbergo e mi aiutarono a trovare un buco. Pagavo 60 mila lire al mese, ma non avevo riscaldamento, nonostante i 12 gradi sotto zero. Ho retto fino alla maturità. Poi mio padre, che a volte era perfino troppo severo, mi disse che se volevo andare all’università dovevo mantenermi da sola. Io, per non essere da meno, risposti che se dovevo arrangiarmi, volevo essere io a scegliere i miei studi. Annunciai dunque con fierezza che avrei fatto l’artista. La prese malissimo. Mi vedeva bene come ingegnere, perché avevo manualità e talento per la meccanica. Non rinnego nulla, ancora oggi usa la mia manualità in più modi, ad esempio creando dei gioielli che sono delle piccole sculture. Ma avevo deciso: avrei fatto l’Accademia delle Belle Arti o magari al Conservatorio a Trieste. Cantavo in un coro amatoriale e i professionisti mi spingevano ad andare avanti. Fu il destino a decidere. L’ammissione al Conservatorio venne prima di quella all’Accademia. Sostenni l’esame, mi presero e la cosa finì lì. Mio padre era disperato. Mi disse, ultime parole famose: ”Ho capito: dovrò mantenermi finchè campo”. Al Conservatorio sono rimasta poco, non avevo tempo per frequentare, perché avevo mille lavori: in officina con mio padre, in comune, alle colonie, nei cori. In sostanza sono stata un’autodidatta, fino al 1988 quando sono entrata nel coro di Trieste. E lì ho imparato tutto. Con i colleghi ero una spugna e poi cantavo qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano. Rubavo trucchi, mettevo da parte tutto quello che mi serviva. Il primo ruolo importante è arrivato dopo cinque anni di coro, due a Trieste, due a Venezia e poi alla Rai di Milano. Nel frattempo ho preso lezioni di spartito da Roberto Benaglio, ex maestro di coro alla Scala. Mi ha svelato i segreti delle partiture raccontandomi le sue esperienze con star come la Tebaldi, la Caniglia, Corelli. Intanto facevo audizioni. Finché, nel ”93 ho strappato una Cavalleria rusticana al Carlo Felice di Genova. Avevo 27 anni, mi mancavano la maturità per un ruolo così impegnativo. Ma venendo dal nulla, senza appoggi, dovevo prendere quello che mi davano. Si impara anche sbagliando». La svolta? «Con il Concorso Pavarotti. Big Luciano faceva selezioni in tutto il mondo, ascoltava duemila concorrenti in America, Asia ed Europa. Io fui tra le vincitrici e, nel 1996, cantai il terzo atto della Tosca a Filadelfia con lui. Dio mio quanto ero emozionata… Pavarotti aveva una voce bellissima e tanta voglia di aiutare i giovani. Mentre cantavamo mi metteva le mani sulla faccia e diceva ”ridi ciccia, ridi”. Ancora nel 2003 cantai l’Aida con lui a Detroit: la voce era ancora giovane, pura. Si poneva più semplice di com’era. Lo ricordo intelligente, duttile e scaltro quanto occorre in un ambiente difficile come il nostro, dove non ti regalano nulla. Ma, soprattutto, generoso. Mi chiamò dopo una mia Butterfly trasmessa in tv per complimentarmi. Io non potevo credere che fosse davvero lui, pensavo a uno scherzo ed ero pronta a liquidare la telefonata con una battuta. Poi, però, ho riconosciuto la voce e mi sono commossa». L’incontro decisivo? «Con Filippo Militano, che ora è mio marito. Cercavo un agente perché, a trent’anni, non avevo il successo che ritenevo di meritare e volevo capire se insistere con il canto o cambiare vita. […] Chiesi un’audizione a Giacomo Del Monaco, regista, talent scout e direttore di teatro, figlio del grande tenore Mario Del Monaco. Fu lui a indirizzarmi a Militano, che venne a trovarmi a Napoli, nel ”97, mentre lavoravo al San Carlo. Gli dissi, senza giri di parole: ”Non posso cantare e gestirmi la carriera. Ho bisogno di una persona che si occupi di me al cento per cento”. Gli offrii 20 milioni di lire per un anno. Erano i miei sudatissimi risparmi». Fu un colpo di fulmine? «No. Eravamo tutt’e due preoccupati di risolvere questioni pratiche. Filippo era rientrato da poco in Italia dalla Germania e voleva aprire una agenzia sua. Per me quel contratto era decisivo. Passai a Filippo la frase preferita di mio nonno: ”Nella vita uno canta e l’altro porta la croce”. Aggiunsi che la croce toccava a lui. Mio marito è stato una guida straordinaria. Fu lui a raccomandarmi a Giancarlo Del Monaco per una Tosca all’Opera di Nizza. Del Monaco fece il mio nome al maestro Daniel Oren che mi aprì le porte dei più grandi teatri, e in un’intervista al Corriere della Sera annunciò di aver scoperto in me la nuova Freni». Ora è una star… «Ma non dimentico le lacrime, la paura di non farcela, i sacrifici. La prima lezione che passo ai miei allievi è che bisogna avere l’umiltà di correggere gli errori e la grinta per assecondare l’istinto. E’ la formula magica che mi ha portato dalle montagne di Arduins alla Scala».