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 2008  ottobre 28 Martedì calendario

La situazione nelle nostre università è paradossale. Studenti e professori protestano contro una riforma che non esiste; il ministro, preoccupato dalle proteste, non si decide a spiegare quel che intende fare per riformare l’università

La situazione nelle nostre università è paradossale. Studenti e professori protestano contro una riforma che non esiste; il ministro, preoccupato dalle proteste, non si decide a spiegare quel che intende fare per riformare l’università. L’unica certezza è che nei prossimi mesi si svolgeranno nuovi concorsi per 2.000 posti di ricercatore e 4.000 posti di professore ordinario e associato, ai quali seguiranno, entro breve, altri 1.000 posti di ricercatore. In tutto 7.000 posti, più del dieci per cento dei docenti oggi di ruolo. I 4.000 posti di professore saranno semplicemente promozioni di persone che sono dentro l’università. Le promozioni avverranno secondo le vecchie regole, cioè con concorsi finti. E’ assolutamente inutile che un giovane ricercatore che consegue il dottorato a Chicago o a Heidelberg faccia domanda: di ciascun concorso già si conosce il vincitore. I 3.000 concorsi per ricercatore assicureranno un posto a vita ad altrettanti dottorandi che lamentano la loro condizione di precari. In tutte le università del mondo ad un certo punto si ottiene un posto a vita, ma ciò avviene solo dopo aver dimostrato ripetutamente di saper conseguire risultati nella ricerca. Qui invece si chiede la stabilizzazione per decreto senza neppure che sia necessario aver conseguito il dottorato. Il ministro ha ereditato questi concorsi dal suo predecessore e non pare aver la forza per cambiarli e assegnare i posti secondo criteri di merito piuttosto che di fedeltà. Gli studenti ignorano tutto ciò e sembrano non capire l’importanza di meccanismi di selezione rigorosi, in assenza dei quali le università che frequentano vendono favole. In quanto ai professori, buoni, buoni, zitti, zitti. Se questi concorsi andranno in porto ogni discussione sulla riforma dell’università sarà d’ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l’emigrazione. La legge finanziaria dispone un taglio ai fondi all’università che è significativo, ma non drammatico: in media il 3% l’anno (1,4 miliardi in 5 anni su una spesa complessiva di circa 10 miliardi l’anno). Si parte da tagli quasi nulli nel 2009, mentre poi le riduzioni diverranno via via crescenti per raggiungere la media del 3% nell’ arco di un quinquennio. Il taglio non è terribile, anche considerando che la stessa Conferenza dei rettori ammette che in Italia la spesa per studente è più alta che in Francia e in Gran Bretagna. Comunque reperire risorse è sempre possibile: ad esempio, si potrebbero cancellare le regole sull’ età di pensionamento approvate dal governo Prodi, ritornare alla legge Maroni e investire i denari così risparmiati nella ricerca e nell’università. Né mi parrebbe osceno far pagare tasse universitarie più elevate alle famiglie ricche e usare il ricavo in parte per compensare i tagli, in parte per finanziare borse di studio per i più poveri. Come spiega Roberto Perotti in un libro che chiunque si occupa dell’università dovrebbe leggere («L’università truccata», Einaudi, 2008) tasse uguali per tutti sono un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. I dati dell’indagine sulle famiglie della Banca d’Italia, citati da Perotti, mostrano che il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l’8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Il ministro Gelmini afferma che il suo modello è Barack Obama: forse il ministro non sa quanto costa a una famiglia americana mandare il figlio in una buona università. In una delle migliori, il Massachusetts Institute of Technology, la frequenza costa 50.100 dollari l’anno (40.000 euro), ma il 64% degli studenti che frequentano il primo livello di laurea riceve una borsa di studio. magistrati (i negligenti ci sono in ogni settore!) né che essi debbano godere di particolari privilegi; tuttavia questo problema non può essere risolto attraverso controlli di presenza fisica mediante tornelli. Certo i magistrati devono essere presenti nelle loro stanze in determinati giorni e ore, soprattutto per i colloqui con gli avvocati (ai quali non devono essere inflitti ingiustificati tempi di attesa). Ma il problema della loro produttività è specialmente legato alla trattazione dei processi – per esempio, senza inutili rinvii – e, nel caso dei giudici, anche alla tempestività nel deposito delle sentenze. Tutti adempimenti sui quali devono vigilare in primo luogo i capi degli uffici giudiziari, con i diversi strumenti, anche disciplinari, a loro disposizione (il che non sempre avviene), oltreché il Csm, attraverso i necessari monitoraggi sui carichi di lavoro dei vari uffici. Non si può sottacere, d’altra parte, che la questione del buon funzionamento della giustizia è legata (al di là dell’impegno dei magistrati, che in media è piuttosto elevato) soprattutto alla carenza di strutture e di risorse, a cominciare dallo stesso personale amministrativo, quasi sempre di molto sotto organico. Come ricorda Luigi Ferrarella nel suo recente volume ha destato molto scalpore, due anni fa, una circolare di Giuseppe Grechi, presidente della Corte d’appello di Milano, che disponeva la riduzione da 5 a 4 delle udienze settimanali di ciascuna sezione, stabilendo inoltre che di regola tali udienze si concludessero tutte entro le ore 14, a causa della indisponibilità del personale ausiliario. Davvero una immagine desolante della nostra giustizia (che, nel frattempo, non è migliorata), sulla quale in special modo dovrebbero riflettere i responsabili governativi della organizzazione giudiziaria.