Federico Rampini, la Repubblica 28/10/2008, 28 ottobre 2008
Dopo il crollo di Wall Street nel 1929, negli anni Trenta furono le svalutazioni competitive a distruggere definitivamente il commercio mondiale, precipitando i tempi della Grande Depressione
Dopo il crollo di Wall Street nel 1929, negli anni Trenta furono le svalutazioni competitive a distruggere definitivamente il commercio mondiale, precipitando i tempi della Grande Depressione. Nella crisi attuale si affaccia ora un pericolo analogo. Una catena di svalutazioni - in questo caso involontarie e subìte dai governi - può rendere insolventi interi Stati-sovrani, aprendo così una nuova falla sistemica sui mercati finanziari. Il fronte più esposto è quello dei paesi emergenti; ma neppure l´Unione europea è immune dalla destabilizzazione. Dalla settimana scorsa l´attenzione dei mercati si è spostata. Più di quel che accade nelle Borse, o sul fronte delle banche rimpinzate di fondi pubblici, adesso i "mercanti di morte" che fanno più paura sono gli hedge fund. Wall Street è percorsa da indiscrezioni continue sulle difficoltà di questi fondi altamente speculativi. Impossibile controllare le singole voci, perché gli hedge sono per definizione scarsamente regolati, poco trasparenti, e quindi misteriosi. Se hanno dei guai seri di solito lo si scopre troppo tardi. Di certo però lo sconquasso che sta avvenendo sulle parità di cambio tra le monete è in buona parte attribuibile a loro. «Faccio questo mestiere da 40 anni - ha confessato il presidente del fondo Gmo di Boston, Jeremy Grantham - e non ho mai visto nulla di simile. E´ un fuggi fuggi nel panico, tutti corrono all´impazzata come tanti polli decapitati» (l´immagine suggestiva evoca il fatto che il corpo del pollo, dopo aver perso letteralmente la testa, per dei riflessi automatici dei muscoli può continuare a scappare per un po´: naturalmente senza sapere dove). Per far fronte all´ondata di riscatti dei loro clienti spaventati dalle perdite, i gestori degli hedge fund devono vendere senza indugi tutto ciò che hanno di liquidabile nei portafogli d´investimento. Una delle conseguenze è proprio il terremoto nei rapporti fra le monete. Con lo yen e il dollaro come vincitori assoluti, in un rovesciamento di ruoli così brutale e precipitoso che non se ne sono ancora misurate tutte le conseguenze. Perché lo yen? Il ruolo della moneta nipponica negli ultimi anni è stato quello di fornire prestiti a bassissimo costo. Siamo vissuti - quasi tutti senza saperlo - in una "bolla dello yen" che alimentava tante altre bolle speculative. Poiché la Banca del Giappone ha mantenuto un tasso ufficiale vicino allo zero, il costo del denaro a Tokyo è irrisorio. Ne è nato un lucroso "carry-trade", come viene chiamato in gergo tecnico: i grandi investitori mondiali si indebitavano presso le banche giapponesi, poi rivendevano lo yen per piazzare i loro capitali in strumenti più redditizi, dai rubli russi alle rupie indiane per comprare azioni della Borsa di Mosca o di Mumbai, fino ai mutui-casa in franchi svizzeri venduti ad ingenue famiglie ungheresi. Ora che tutti quegli investimenti esotici si sono polverizzati nel grande crac mondiale, e gli hedge fund devono fare cassa per rimborsare i clienti, si precipitano a chiudere i loro debiti con le banche giapponesi. Per farlo, devono comprare yen. «Lo yen torna a casa», ha detto Tohru Sasaki, capo ufficio cambi della JP Morgan Chase a Tokyo. E´ la ragione che ha spinto la moneta giapponese a un rialzo forsennato: più 24% sul dollaro da luglio, nello stesso periodo in cui l´euro ha perso il 22% sul dollaro. E´ un sisma che ha rari precedenti nella storia. Le conseguenze sono potenzialmente micidiali. A fronte dei poderosi rialzi di yen e dollaro, è iniziata una drammatica caduta delle monete dei paesi che prima avevano attratto gli investimenti speculativi: dall´Argentina all´Australia, dal Sudafrica alla Corea, è vastissimo l´arco geografico della crisi. Per alcuni di questi paesi il crollo della moneta nazionale è difficilmente governabile, perché hanno già bilance dei pagamenti in rosso, hanno contratto debiti con l´estero che devono rimborsare in valute diventate fortissime come appunto lo yen e il dollaro. Perciò ieri il governo di Tokyo ha esercitato pressioni sul G-7 per ottenere un gesto che possa placare la tempesta dei cambi. Ne è uscito un comunicato dei Sette grandi che esprime «preoccupazione per l´eccessiva volatilità dei cambi e le possibili implicazioni negative sulla stabilità economica e finanziaria». E´ troppo poco per rasserenare l´atmosfera. Si vedrà se nei prossimi giorni alle parole seguiranno gli interventi concertati delle banche centrali per arginare la forza incontrollata dello yen. Non è detto che bastino neanche quelli: rispetto ai volumi di capitali privati che si muovono quotidianamente sui mercati dei cambi (dilatati dal moltiplicatore dei titoli derivati) gli arsenali delle banche centrali non sono onnipotenti. Le tensioni ormai lambiscono l´Unione europea. Ne è vittima un paese come la Danimarca, punito per non appartenere all´euro: la banca centrale di Copenaghen è stata costretta ad alzare i tassi d´interesse proprio quando arriva la recessione, strangolando così l´economia reale nel tentativo di fermare le fughe di capitali. Ma difendere una moneta con i rialzi dei tassi, quando è sfiduciata dai mercati, è stata sempre un´illusione pericolosa. L´Italia lo provò nelle tremende crisi valutarie del 1992 e del 1995, che portarono alle stelle il costo del denaro e del debito pubblico, senza frenare la caduta della lira. Ora i mercati tornano a chiedersi se ci sia un rischio-sovrano anche all´interno della zona euro, dove non tutti gli Stati hanno la stessa solidità nei conti pubblici. La fuga dei capitali verso la sicurezza è implacabile. Si rispolvera l´uso dell´acronimo Pigs (suona come "maiali" in inglese, in realtà sono le iniziali di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna): non a caso questi paesi hanno visto lievitare i costi dei contratti d´assicurazione anti-bancarotta, a livelli molto più alti della Germania.