Michele Farina, Corriere della sera 27/10/2008, pagina 15, 27 ottobre 2008
Detroit. Il giornale dice che quest’anno in America hanno chiuso 600 concessionarie di auto su 20 mila
Detroit. Il giornale dice che quest’anno in America hanno chiuso 600 concessionarie di auto su 20 mila. «Mio padre lavorava alla General Motors», dice Elmore Leonard seduto alla sua scrivania in soggiorno. Jeans, pullover verde acqua, calzettoni di lana. Sul tavolino a fianco, la macchina per scrivere elettrica comprata cinque anni fa. «Scrivo due o tre pagine a mano, le batto, poi ci rilavoro sopra». Un computer no? «Sta di sopra, lo usa mia moglie. A cosa mi serve un computer?». Eppure ha un sito internet. «Lo cura il mio assistente, Gregg. Lui dice che tra gli scrittori Stephen King ha il sito più bello. Perché la gente perde tempo in roba simile anziché lavorare?». Una stilografica, una risma di tremila fogli gialli che dura un anno. La porta finestra dà su un ettaro di alberi e prati, puzzole e scoiattoli. «Mio padre girava l’America, era rispettato sul lavoro, pochi problemi. Poi nel 1948 volle mettersi in proprio. Aprì una concessionaria in New Messico. Morì sei mesi dopo. Aveva 56 anni. Ho sempre pensato che è stato lo stress. Non è facile ricominciare, da soli, dimostrare che sei bravo». Elmore Leonard, uno dei più grandi romanzieri viventi, è nato nel 1923 a New Orleans. Dal 1934 vive a Detroit, capitale decaduta dell’auto e di tutto il resto. E’ la città che più incarna il male americano. Una città in svendita che si svuota (dimezzata, 850 mila abitanti, 80% neri, un terzo poveri). Licenziamenti (più di 100 mila posti persi nelle fabbriche Gm, Ford e Chrysler) e ipoteche. Case invendute a prezzi stracciati. Ville con tre camere da letto a mille dollari senza acquirenti. Dimore anni ’20 nello storico quartiere Edison che costano come tre metri quadri a Milano. La prima dimora con piscina di Henry Ford, magnate dell’auto, acquistata per 30 mila dollari da un professore di anatomia in pensione che si considera una specie di pioniere della riurbanizzazione: lui e i vicini sopravvissuti tagliano l’erba davanti alle case sfitte per invogliare eventuali inquilini. Le agenzie immobiliari ricevono chiamate dall’India. Aretha Franklyn, regina del soul, stava perdendo il tetto per una storia di tasse non pagate. Il mutuato Zahir, ex insegnante ora tassista, dopo 21 anni di Detroit (al telefonino risponde Salam Aleikum) pensa di tornare in Bangladesh se solo riuscirà a disfarsi decentemente di una casa acquistata per 120 mila dollari che ora ne vale 20 mila. Su Traverse Street, vicino al faraonico aeroporto, una banca ha appena sbolognato una neo-fatiscente proprietà su due piani: l’ultimo proprietario nel 2006 aveva sganciato 65mila dollari prima di strozzarsi con la rata del mutuo, poi i vandali hanno portato via anche la porta d’ingresso, la signora del vicinato che l’ha presa come investimento ci ha messo un dollaro, il doppio del valore reale. Non è la provocazione di un sindaco alla Sgarbi, è il mercato bruttezza: metà delle proprietà passate di mano nel 2008 a Detroit sono costate mediamente meno di 10 mila dollari. C’è persino una chiesetta, vero affare: 6 mila dollari con angolo altare, «pagamento in contanti». Per arrivare a casa Leonard in Michigan si attraversano boschi a latifoglie e filari di «for sale». Bloomfield Hills, 30 chilometri dal centro sulla strada per Pontiac, è un paradiso risparmiato dalla crisi. «Se vendessi ora credo che prenderei un milione». Dopo 43 romanzi, Leonard pensa ancora a scrivere. L’autore di crime-story più amato di Hollywood (da Get Shorty a Out of Sight) ha appena ultimato «Road Dogs», storia di due compari che escono di prigione e si incasinano di più. Leonard ha comprato la prima casa negli anni ’60, poco lontano da qui, dopo aver venduto i diritti di «Hombre» a 10 mila dollari, «una bella cifra per l’epoca». Aveva già pubblicato su una rivista (per 90 dollari) e girato a Hollywood (per 800) un western diventato poi un classico: «Quel treno per Yuma». Nel 1961 si era licenziato dall’agenzia dove scriveva testi per le pubblicità delle auto: «Sulle berline facevo fatica, ero più bravo con i camion ». Perché? «Con le macchine devi scrivere in modo carino, non era il mio genere». Le macchine di oggi sembrano camion… «Già, i suv. Ne vedo tanti, davanti alla scuola qui vicino. File di suv che faranno 10 miglia con un gallone (4 km con un litro ndr) ». La crisi sta spazzando via tutto. Solo il 10% degli americani oggi pensa a comprarsi la macchina nuova, i concessionari danno lavoro a oltre un milione di persone… «Non siamo stati al passo con i tempi, dovevano cominciare a fare auto più piccole come voi in Europa». Lei che macchina ha? «Una Volkswagen cabrio di 6 anni e 48mila km. Christine (la terza moglie, ndr) una Bmw decappottabile. Mi ha appena chiamato, ha distrutto il paraurti andando dal dentista». Bernard-Henry Levy ha scritto di Detroit come di un inferno. Ai convegni tra sindaci e urbanisti si parla di «detroitification» come il simbolo dei pericoli da evitare. Auto e case, la fine dell’american dream… «Beh, Detroit non è tanto male. Non siamo finiti, c’è ancora gente in grado di creare cose nuove, ce la caveremo ». Dice così perché è un creativo che vive in una bella villa tra gli alberi… «Lo dicono i numeri. Quando ho pubblicato Mister Paradise, l’ultima storia ambientata a Detroit, in città c’erano 410 omicidi l’anno, e prima ancora a metà dei ’70 gli ammazzati erano più di 700. Adesso non c’è violenza, il centro è sicuro». Per forza, non c’è nessuno… «Questa è ancora una città interessante. C’è l’Opera, la musica sinfonica, e a quanto mi risulta molta musica buona per i giovani, rock and roll e roba del genere ». Leonard aveva sei anni quando scoppiò la crisi del ’29: «Mi ricordo file di gente davanti ai negozi, e chi vendeva mele all’angolo della strada». Code e mele, un modo un po’ dolce per descrivere una catastrofe… «Questi sono i miei ricordi, noi non stavamo male, mio padre non perse il lavoro». Per Leonard il ’29 è semmai l’anno di «Niente di nuovo sul fronte occidentale», «il libro che mi ha fatto nascere il desiderio di scrivere». Neanche la crisi attuale increspa il suo tono di voce. Le traversie di «Joe il concessionario»" non sono materia da romanzo o da film (con la faccia di John Travolta come in Get Shorty), la solitudine tragicomica degli agenti immobiliari a downtown non finirà in un racconto portato sullo schermo da Tarantino. Alza un po’ il tono, Leonard, solo parlando del bailout, il piano governativo di salvataggio, «miliardi di dollari infilati nelle tasche degli stessi che hanno provocato il disastro con investimenti avventati». Davanti a casa Leonard ha messo il cartello «Obama-Biden». Se vince, lei dovrà pagare più tasse… "E allora? Non so neanche quanto, non mi interessa. Obama sarebbe un bravo presidente». Michele Farina