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 2008  ottobre 26 Domenica calendario

Sono alcune dozzine. Si trattengono solo pochi giorni o restano per settimane. Una presenza che deve rimanere discreta

Sono alcune dozzine. Si trattengono solo pochi giorni o restano per settimane. Una presenza che deve rimanere discreta. Per questo Teheran li ha affidati alla sorveglianza dei pasdaran, i guardiani onorati come il «sangue della rivoluzione». Stiamo parlando degli scienziati della Corea del Nord ingaggiati dall’Iran per sviluppare il programma missilistico, strettamente connesso a quello nucleare. possibile che i tecnici lavorino alla realizzazione di un’ogiva atomica adattabile ai missili allo studio in Iran con l’aiuto di Pyongyang. Il regime comunista non riesce a sfamare la popolazione ma continua imperterrito nei suoi test missilistici nel Mar Giallo. Per rendere più efficace la ricerca e metterla al riparo da eventuali «sorprese», Teheran ha proceduto a una riorganizzazione delle sue strutture. Mosse che abbiamo ricostruito con l’aiuto dei Mujaheddin del popolo, movimento di opposizione ai mullah. Come primo atto, gli iraniani hanno spostato il ministero della Difesa in una nuova area (Via Langari, a nord della piazza No-Bonyad): una serie di palazzine sparpagliate su una vasta area invece che un unico grande edificio. Quindi il comandante dei pasdaran, Mohammed Alì Jafaari, ha assunto il pieno controllo del programma missilistico. Non solo le unità operative ma l’intero dispositivo di studio e ricerche deve fare capo ai guardiani. L’organizzazione per l’industria aerospaziale è stata affidata a Mohammed Farraj, alto ufficiale dei pasdaran, che ha subito spinto i suoi uomini ad accelerare i tempi. A Teheran sono inquieti. Le difficoltà tecniche – sia nel settore atomico che missilistico – stanno rallentando la tabella di marcia. A luglio sono state diffuse foto di una esercitazione con «nuovi» missili. Ma gli analisti occidentali hanno scoperto che le immagini erano state «taroccate » e che gli ordigni erano delle vecchie versioni dello Shehab. Il 17 agosto, sotto gli occhi del presidente Ahmadinejad, è stato lanciato un vettore che, secondo le autorità, trasportava un satellite civile. Il test, tuttavia, non è stato perfetto e per gli esperti occidentali il missile non sarebbe in grado di mettere in orbita il satellite. Anzi, secondo i Mujaheddin, si è trattato di una manovra con uno «Shehab». L’obiettivo è quello di produrre un’arma con un raggio d’azione che vada oltre i 2 mila chilometri. Le prove sono state condotte in una base nell’area di Semnan, un impianto che fa parte di un network piuttosto esteso. Il cuore è rappresentato dall’Organizzazione per l’industria aerospaziale che sovraintende al lavoro di almeno sette «gruppi». In base alle informazioni raccolte dagli oppositori la missione più importante è affidata alla società Hemmat. Usando lo schema del puzzle, gli iraniani hanno suddiviso la ricerca in diversi centri. «Khalor» si occupa dei lanciatori. «Ceraghi» del combustibile. «Rastegar » dei motori. «Karimi» della catena di lancio. «Varamini » del sistema di comando. «Movahed» dell’assemblaggio finale. Gli studi più «sensibili» – ci racconta Alireza Jafarzadeh mostrandoci delle foto satellitari – sono invece condotti all’impianto Nouri: qui, gli scienziati lavorano sulle testate in collaborazione con i loro colleghi di Mojdeh, sito legato al nucleare. In particolare è stato segnalato più volte Mehdi Fesharaky, responsabile della ricerca nel campo delle ogive atomiche. Per il timore di attacchi aerei una buona parte dei laboratori sono stati creati nel sottosuolo. Bunker e tunnel simili a quelli presenti in altre installazioni, a cominciare da quella di Mohaved. Quanti mostrano comprensione per la politica degli ayatollah osservano: l’Iran non vuole essere trattato come uno Stato «pariah», punta a un ruolo regionale importante, teme che le pressioni internazionali siano il preludio a una manovra per cambiare il regime. Gli accusatori – americani e israeliani in particolare – ritengono, invece, che Teheran rappresenti una seria minaccia e che la Bomba non sia più un miraggio. Timori condivisi, pur con mille distinguo, dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). «Gli iraniani hanno il libro delle ricette ma non possiedono ancora gli ingredienti », ha affermato il 26 settembre il cauto direttore Mohammed El Baradei. E nel libro delle ricette sarebbero finiti i suggerimenti di un misterioso scienziato russo. Sembra che lo specialista abbia assistito gli iraniani in un complesso esperimento su come far esplodere un ordigno nucleare. Ma alla Bomba Teheran deve ancora arrivarci. Entro quando raggiungerà il punto di non ritorno? Le previsioni abbondano: 2009, secondo una relazione presentata al Parlamento israeliano; 2010-2015 per gli ispettori Aiea; 2011 per il Mossad israeliano e i servizi russi; 2013 per l’esperto americano David Kay; 2013-2015 secondo la stima dell’intelligence Usa. Alle valutazioni discordanti sul «cosa» vanno sommate quelle sul «fare». Si chiedono sanzioni aspre, si agita il bastone del raid e si cerca di trovare una formula negoziale. A chi denuncia l’inutilità della trattativa, si replica sostenendo come sia difficile ricorrere all’opzione militare. La Casa Bianca l’ha inserita nei suoi scenari, ma nelle ultime settimane sono apparse ricostruzioni di segno contrario. Bush, si racconta, avrebbe posto il veto a un possibile attacco israeliano. L’esperto statunitense David Albright – tra i migliori – ha sottolineato che un blitz non darebbe garanzie di successo pieno. Gli impianti nucleari sono dispersi, ben protetti e servirebbero incursioni su vasta scala. Fonti di intelligence a Washington, però, suggeriscono una variante: non serve distruggere, basta provocare una «contaminazione » dei siti. Scenari inquietanti che ne aprono altri, tutti segnati dall’incertezza. In attesa di decidere, gli attori giocano sporco. Teheran continua le sue attività clandestine, sostiene la sua longa manus libanese, l’Hezbollah, e gonfia i muscoli dei pasdaran. Gerusalemme mobilita il braccio strategico del Mossad, responsabile – si dice – di numerosi sabotaggi all’interno dell’Iran. Esplosioni inspiegabili, morti misteriose, apparati fuori uso che potrebbero essere la conseguenza di colpi di mano segreti. E Washington? Si affida alle parole, aspettando che arrivi un nuovo inquilino alla Casa Bianca. Guido Olimpio  il 4 luglio di quest’anno. I doganieri del porto di Varna (Bulgaria) decidono di fare i fiscali. Controllano la documentazione della nave «Angela» e si accorgono che qualcosa non quadra. A bordo non ci sono solo «tubi» – come indica il manifesto di carico – ma anche otto container. All’interno componenti missilistiche russe destinate alla Siria. Il mercantile è bloccato e chi ha organizzato il traffico – Damasco e Mosca – si inquieta. Sì, perché lungo quella rotta devono passare altre armi. Il 21 agosto, il presidente siriano Bashar Assad ha concluso nella capitale russa un importante accordo. Il Cremlino si è impegnato a vendere al Paese mediorientale 1200 missili Kornet (inizio fornitura novembre 2008), 1500 missili Konkurs (arrivo previsto per dicembre) e 750 apparecchiature per la realizzazione di razzi (arrivo entro il gennaio 2009). Ordigni letali nelle mani di guerriglieri e terroristi, armi sofisticate come hanno dimostrato gli Hezbollah nel conflitto dell’estate 2006.  così che Assad ordina la creazione di uno speciale ufficio all’interno della Divisione affari strategici del ministero della Difesa. Saranno i funzionari di questo reparto a dover seguire l’arrivo del materiale bellico russo e a deviarne la metà verso il Libano. Fonti dell’opposizione siriana, molto attivi a Washington, sostengono che un buon numero di missili finirà nelle mani dell’Hezbollah, l’alleato di Teheran nello scacchiere libanese. Nel concludere i loro affari, russi e siriani concordano che è necessario mantenere la massima segretezza sulla destinazione finale dei razzi. Mosca non vuole essere accusata di rifornire direttamente i guerriglieri e la sponda siriana dunque è provvidenziale. Damasco incamera armi utili nei conflitti a bassa intensità, mette in piedi una linea di produzione, acquista meriti sia agli occhi dei miliziani libanesi che degli amici iraniani. Un «affare» che coinvolge anche i pasdaran. Per i guardiani della rivoluzione, in caso di un attacco agli impianti nucleari di Teheran, gli Hezbollah dovranno partecipare alla rappresaglia. Non è detto che accada in modo automatico, però devono avere tra le mani i migliori armamenti. Ma il presidente Assad – e il russo Dimitri Medvedev – sono consapevoli che non tutto può essere fatto in modo trasparente in quanto è in vigore la risoluzione 1701 dell’Onu che vieta la fornitura di armi. Ma le spedizioni continuano e – secondo Damasco – «devono continuare» a lungo. Una linfa che sarà alimentata dallo speciale ufficio della Divisione affari strategici in coordinamento con un team tecnico russo. Toccherà a loro inventarsi trucchi, scoprire «vie», creare meccanismi. In una recente visita a Mosca, il premier israeliano Ehud Olmert ha sollevato il tema delle forniture belliche a Iran e Siria. La risposta di Medvedev è stata ambigua. Questa in sintesi: il Cremlino non permetterà che la sicurezza di Gerusalemme sia minacciata ma non vuole prendere impegni precisi sull’invio di armi. Magari non fornirà i temuti S300 antiaerei però vuole mano libera per il resto. In questa fase di tensione per la crisi nel Caucaso, Mosca sta riposizionando le sue pedine. E Damasco, non solo può essere un buon cliente (ammesso che paghi), ma ha offerto il porto di Tartous come attracco in Mediterraneo per la flotta russa. Quanto all’atomica iraniana, la Russia, insieme alla Cina, rappresenta un formidabile ostacolo all’adozione di misure severe da parte dell’intera comunità internazionale. G.O. Tra le grandi questioni internazionali che il nuovo presidente degli Stati Uniti troverà sul tavolo dello Studio ovale, la corsa iraniana verso il nucleare occuperà un posto di assoluto rilievo. Perché sono in gioco la sicurezza di Israele e la stabilità dell’intera area mediorientale. Perché il ricorso alla forza viene sconsigliato da una serie di fattori (non ultima la crisi finanziaria) ma nel contempo la politica delle sanzioni scelta dall’ amministrazione Bush non ha prodotto risultati apprezzabili. Perché, infine, la politica verso l’Iran è stata oggetto di nette contrapposizioni tra i candidati Barack Obama e George McCain mentre sull’Iraq e sull’Afghanistan le differenze sono diventate più retoriche che sostanziali. Quanto basta per rendere particolarmente interessante il rapporto «Engaging Iran» preparato dalla Commissione trilaterale e che sarà presentato a Roma domani. Più vicino alla linea di Obama che a quella di McCain, lo studio a sei mani (scritto da un americano, da un asiatico e da un europeo) affronta di petto la questione centrale: se è vero che passerà ancora qualche tempo prima che l’Iran acquisti una capacità nucleare militare, come si può utilizzarlo per prevenire una catastrofe? Il rapporto riconosce che la maggioranza degli osservatori e degli esperti ritiene che Teheran, contrariamente alle sue affermazioni, abbia deciso di dotarsi della «bomba». La dirigenza iraniana, tuttavia, è sull’argomento meno unita di quanto si pensi: alcuni hanno in mente una capacità di deterrenza regionale e rifiutano che all’ Iran venga proibito quel che è stato consentito ad altri (India, Pakistan, Corea del Nord); una fazione non secondaria si oppone invece all’effettiva esibizione di armamenti atomici (ci si può fermare prima, e lasciare che gli altri credano a una capacità non dimostrata) per evitare che l’Iran diventi un bersaglio alla prima crisi importante; infine, c’è a Teheran chi si oppone del tutto all’arma nucleare sostenendo che è più efficace il deterrente «asimmetrico» di cui dispone l’Iran. Sta di fatto che la maggioranza della classe dirigente iraniana in un modo o nell’altro vuole disporre di una deterrenza nucleare. Il che comporterebbe alcune conseguenze poco piacevoli: la possibilità di radicalizzare la contrapposizione con Israele; quella di rendere più aggressiva l’influenza di Teheran su Hezbollah in Libano, su Hamas a Gaza, forse sulla Siria, probabilmente sui Paesi del Golfo dove sono presenti cruciali minoranze sciite; l’innesco di un processo di proliferazione nucleare nel mondo islamico e oltre. Qualcuno evita di drammatizzare, e osserva che dopotutto potrebbe crearsi in Medio Oriente un sistema simile a quello di distruzione reciproca assicurata che mantenne la pace tra USA e URSS durante la Guerra fredda. Ma il rapporto ricorda che gli attori mediorientali non hanno esperienza in materia, che non esistono linee di comunicazione affidabili, che gli avversari spesso non si parlano e si conoscono poco tra loro, in definitiva che sarebbe assai difficile riprodurre in M.O. un codice di condotta che impedisca a tutti di premere il grilletto. Ebbene, una volta misurata l’enormità dei problemi, che fare? Primo, gli Stati Uniti devono aprire un dialogo diretto con Teheran (come sostiene Obama). Se non si sentirà riconosciuto e legittimato, l’Iran non farà mai passi costruttivi sulla questione nucleare. Bisogna invece studiare una serie di possibili scambi di concessioni, a cominciare dalle garanzie di sicurezza che Teheran reclama, e nel contempo avere mano ferma nell’esigere limitazioni (utili a prevenire l’armamento nucleare) nell’arricchimento dell’uranio. In altre parole, gli iraniani debbono essere coinvolti in un approccio pragmatico, non ideologico e non religioso. Il che non esclude che Teheran tiri diritto per la sua strada. Una azione offensiva americana, israelo-americana o israeliana, si sconterebbe con notevoli problemi operativi ma riuscirebbe come minimo a rallentare la marcia nucleare iraniana. Micidiali, però, potrebbero essere anche le risposte di Teheran e di ampie fette del mondo islamico, da quelle militari dirette a quelle legate alla produzione e al prezzo del petrolio. Dunque, bisogna prima parlare e tentare quel che non è stato ancora tentato. Sperando che l’Iran si accontenti di una capacità nucleare «latente». E che si possa non ricorrere alla spada, senza per questo rinunciare a impugnarla. Roma Domani sarà presentato il rapporto «Engaging Iran» con le valutazioni di Europa, Asia e Usa Scenari Si teme che esista la prospettiva di radicalizzare la contrapposizione con Israele Franco Venturini