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 2008  ottobre 25 Sabato calendario

Le risposte alla crisi finanziaria avvicineranno o allontaneranno Stati Uniti ed Europa? A questo interrogativo, essenziale per il futuro del sistema atlantico, Angelo Panebianco risponde così ( Corriere, 20 ottobre): la distanza aumenterà

Le risposte alla crisi finanziaria avvicineranno o allontaneranno Stati Uniti ed Europa? A questo interrogativo, essenziale per il futuro del sistema atlantico, Angelo Panebianco risponde così ( Corriere, 20 ottobre): la distanza aumenterà. Perché solo apparentemente, o temporaneamente, le due sponde dell’Atlantico stanno adottando rimedi simili, ossia dosi massicce di interventismo statale. Ma per l’America si tratta di una medicina amara e assunta obtorto collo: finita una crisi che oggi appare infinita, gli Stati Uniti torneranno a una visione liberale del mercato. Mentre per l’Europa, o per una maggioranza dei suoi governi, si tratta quasi di un’occasione da sfruttare per rifugiarsi nello statalismo di sempre. Penso anch’io, come Panebianco, che il futuro dei rapporti transatlantici non sia scontato. L’idea, molto diffusa, che la fine della presidenza Bush produca di per sé un miglioramento delle relazioni fra l’Europa e gli Stati Uniti verrà messa duramente alla prova nei prossimi mesi, chiunque sia il nuovo presidente americano. In caso di vittoria di Barack Obama, l’America chiederà agli alleati europei un appoggio molto più attivo in Afghanistan. In caso di vittoria di John McCain, a questa prima richiesta si aggiungerà quella di trattare la Russia non come un partner potenziale ma come un rivale da contenere. Cosa non proprio gradita a quei Paesi europei, come la Germania e l’Italia, legati alla Russia sul piano energetico. In politica estera, insomma, non è detto che le cose, «senza Bush», vadano necessariamente lisce. E la crisi finanziaria non aiuta di certo: con il debito che dovrà gestire, l’America chiederà comunque una maggiore condivisione degli oneri agli alleati europei, che a loro volta saranno in difficoltà. Il che appunto produce un rischio preciso: che l’Atlantico diventi più largo. Quanto conterà, in tutto ciò, l’esistenza del divario culturale di cui parla Panebianco? Io proporrei qualche caveat. L’interventismo statale non è stato un’eccezione nella politica economica americana: è stata una ricetta applicata, dal New Deal in poi, tutte le volte che l’America si è trovata in difficoltà. E non solo dai presidenti democratici ma anche da presidenti repubblicani, inclusi Nixon e l’ultimo Bush. Sul lato europeo, bisogna ancora vedere se la risposta alla crisi finanziaria – affidata quasi interamente al coordinamento fra i governi nazionali – trascinerà il nostro continente fuori dalle secche degli ultimi anni, come dobbiamo sperare (dopo molte esitazioni iniziali, l’autunno nero dell’economia ha provvisoriamente tonificato l’euro-gruppo, insieme a Gordon Brown). O se invece finirà per produrre una «cascata» di ri-nazionalizzazione: dalla politica all’economia; dalla finanza al mercato interno. Se prevalesse questo secondo scenario, la distanza dall’America aumenterebbe. Poniamoci allora una domanda ulteriore: se il rischio di un Atlantico più largo è reale, è ancora possibile prevenirlo? Per l’Europa, più che per gli Stati Uniti, prevenirlo è un interesse di fondo. Per due ragioni essenziali. Perché tutte le volte che il rapporto atlantico si indebolisce anche l’Europa tende a dividersi. E perché dobbiamo evitare che i nuovi equilibri internazionali, quelli che emergeranno dalla crisi attuale, si basino su un asse transpacifico, che lascerebbe il Vecchio Continente in una posizione marginale. Negli ultimi dieci anni, il paradigma della crescita globale si è fondato su un rapporto quasi simbiotico fra l’America in deficit e la Cina in surplus. Il deficit di un’America che ha vissuto a lungo al di sopra dei propri mezzi è stato compensato dal surplus di un modello di crescita, quello cinese, fondato sulle esportazioni e sull’investimento delle riserve valutarie a sostegno del dollaro. Questo equilibrio degli squilibri è alla fine saltato. La crisi finanziaria ha rovinosamente contagiato i mercati europei, come prevedibile; e apre rischi di recessione. Ma apre anche all’Europa, almeno in teoria, la possibilità di partecipare a un assetto globale più bilanciato: in cui – idealmente – la Cina aumenti la domanda interna e accetti una più forte rivalutazione dello yuan (ancorato a un paniere monetario); in cui gli Stati Uniti, dopo avere risposto alla crisi, aumentino il loro tasso di risparmio; e in cui l’Europa recuperi produttività attraverso maggiori investimenti e riforme indispensabili. Il tutto evitando, non sarà affatto facile, quelle tentazioni protezionistiche che sono in crescita un po’ dovunque. Questa la teoria, la pratica è che i Paesi europei dovranno cercare di restare nel gioco. E non sarà semplice. Uno dei modi per farlo è di rafforzare, assieme al coordinamento interno all’area dell’euro, anche il coordinamento occidentale. Tanto più quando si prepara l’allargamento del G-8. Consolidare l’area transatlantica significa molte cose diverse, relative alle regole finanziarie, ai rapporti monetari, al commercio e agli investimenti. Esistono delle differenze di partenza; ma il risultato dovrebbe aiutare, per tornare al dilemma di Panebianco, un buon equilibrio fra Stato e mercato. Ed esiste una pre-condizione generale: che gli europei siano pronti ad assumersi una quota dei costi – e dei rischi – della governance internazionale, fino ad oggi sostenuti in larga parte dagli Stati Uniti. Quando si parla di una nuova Bretton Woods si parla in fondo anche di questo. Non solo di sedersi a un tavolo che definiamo multipolare ma di dividere poi il conto.