Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  ottobre 24 Venerdì calendario

ALBERTO STATERA

In un paese senza memoria (e senza vergogna), il presidente del Casinò di Sanremo con il presidente della Confindustria di Imperia e un ministro ex democristiano hanno attribuito l´altro giorno all´Olivetti, quel che resta della storica azienda di Ivrea che il 29 ottobre compie un secolo, il premio «Cento anni da qui».
Assistito da Claudio Scajola per il governo e da Sandro Cepollina per gli industriali liguri, il rappresentante di «Casinò Spa» Donato Di Ponziano ha detto nell´occasione: «Volevamo dedicare un evento al nostro centenario, rispecchiandoci in altre aziende che hanno saputo come noi puntare sulla continuità e sulla qualità».
Ma, signori, come pensate di «rispecchiarvi» con un casinò proprio nell´azienda che fu fatta grande da Adriano Olivetti, il capitalista anomalo, utopico, che teorizzava la fabbrica per l´uomo e non l´uomo per la fabbrica, che sognava un´azienda capace di anteporre la persona al profitto persino nella ricerca architettonica, ingaggiando Le Corbusier, e che aveva il culto del prodotto manufatto che si può guardare e toccare? Di padre ebreo, di madre valdese, pragmatico ma al tempo stesso mistico, affascinato dalla «luce della rivelazione cristiana», da Maritain e Kierkegaard, nessun capitalista italiano è mai stato forse più lontano di Adriano Olivetti dall´edonismo d´azzardo dello «chemin de fer», dall´industria del nulla con la quale l´hanno associato a Sanremo. La Confindustria, poi, la detestava, tanto che l´Olivetti non vi era iscritta. E ne era ricambiato, al punto che Alighiero De Micheli, presidente dal 1955 al 1961, inviò una circolare agli associati invitandoli a non acquistare macchine Olivetti, con sommo gaudio di Vittorio Valletta, che dirigeva la Fiat in un clima antisindacale e militaresco e che considerava l´utopista di Ivrea un pericoloso sovversivo e la sua fabbrica un covo di comunisti. In politica - chissà se lo sa Scajola, l´ex sindaco democristiano di Imperia oggi ministro berlusconiano dell´Industria - Adriano Olivetti fondò nel 1947 il Movimento Comunità (che undici anni dopo si presenterà alle elezioni politiche con risultati deludenti) in alternativa alla «democrazia autoritaria dei partiti cattolici, alla democrazia progressiva dei partiti comunisti» per opporvi «una democrazia integrata, una forma nuova di rappresentanza più forte, più efficiente della democrazia ordinaria, ma altrettanto rispettosa dell´eterno principio dell´eguaglianza fondamentale e della libertà di ognuno». La Comunità come «spazio naturale dell´uomo» e «cellula di base dello Stato federale». Quanto bastava per avere contro l´establishment capitalista, quello cattolico e anche quello marxista. Il Pci di Togliatti lo accusava di «Patronalsocialismo» e sul «Contemporaneo» Fabrizio Onofri lo paragonò addirittura a Hitler. I liberisti lo ascoltavano con sufficienza. Franco Ferrarotti, olivettiano, padre della sociologia italiana, racconta di una sera dell´estate del 1952 a Chicago, quando Adriano, al primo piano del «Quadrifoglio Club» dell´Università, parlò a uno straordinario uditorio di professori di Economia, Scienze Politiche e Sociologia. A un certo punto, in ritardo, entra Friedrich August von Hayek, liberista e antikeynesiano, che, sedendosi, chiede al suo vicino che cosa l´oratore stia dicendo.
Con un sorriso, sottovoce, ma in modo che tutti sentano, Herman Finer gli risponde: «Ha appena finito di spazzar via i partiti politici». Quei partiti che «schiacciano la società civile, la alienano dalle sue istituzioni, aprendo la via al dogmatismo autoritario».
Oggi, nell´epoca di tutti i revisionismi, mentre Berlusconi rilancia l´intervento pubblico, Tremonti teorizza l´economia sociale di mercato in alternativa al mercatismo, torna Keynes a spodestare la Scuola di Chicago, si rivaluta la manifattura rispetto alla finanza maledetta, si riconsidera, almeno a parole, il lavoro operaio rispetto all´ordalia miliardaria dei manager, perché non rimpossessarsi anche di Adriano Olivetti a destra, a sinistra e persino al casinò?
Era il 29 ottobre 1908 quando Camillo Olivetti, padre di Adriano, costituì a Ivrea la Ing. C. Olivetti&C., prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere, stabilimento di 500 metri quadrati, 20 dipendenti, produzione di 20 macchine a settimana. Negli anni Trenta nasce un nuovo prodotto ogni due anni.
Negli anni Quaranta arrivano le telescriventi, le calcolatrici, le attrezzature d´ufficio e nel 1942 i dipendenti sono diventati 4mila. Poi dal 1946 al 1958, nell´Olivetti di Adriano, la produzione aumenta di 13 volte, le vendite in Italia di sei volte e quelle all´estero di diciotto volte. Su 14mila dipendenti, 1.500 sono addetti alla ricerca, sviluppo e progettazione.
Nel 1952 c´è una crisi di sovraproduzione, due direttori chiedono il licenziamento di 500 dipendenti, lui licenzia invece i due direttori, raddoppia la forza di vendita, fa assumere 700 persone sopratutto per le vendite porta a porta e crea nuove consociate all´estero. La modernizzazione, la continua innovazione dei prodotti sono la regola. In Europa non c´erano concorrenti, le macchine erano le più avanzate tecnologicamente, ma erano anche capolavori di design, perché la cosa utile deve essere anche bella. Nel 1955 ad Agliè, nel Canavese, sorge la fabbrica in cui si costruisce la «Lettera 22». Si aprono show-room a Chicago, New York, San Francisco, Parigi, che finiscono sulle riviste di architettura.
L´Olivetti diventa un archetipo degli stili di vita, una «success history» internazionale, fatta di prodotti e anche di filosofia. I fini dell´industria - dice Adriano in un famoso discorso di Natale ai dipendenti - non sono solo «nell´indice dei profitti». Oltre agli interessi ci sono i valori, nella cui difesa i lavoratori si devono incontrare con gli «uomini di cultura». Nei fatti, per la prima volta in Italia, tra il 1956 e il 1957 le ore di lavoro all´Olivetti scendono da 48 a 45 e la settimana a cinque giorni, mentre gli operai godono di asili, colonie, biblioteche, perché la fabbrica deve essere propulsore di cultura.
Muore nel 1960, Adriano Olivetti, lasciando un´azienda con 35mila dipendenti nel mondo e una società sottocapitalizzata. La famiglia non è unita, arriva il «Gruppo d´intervento», formato da Fiat, Pirelli, Imi, Mediobanca e Centrale, presidente Bruno Visentini. E Valletta che suona la marcia funebre, annunciando che c´è «un neo da estirpare» all´Olivetti, il settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che «nessuna azienda italiana può affrontare». Il resto è storia recente. Il capitalismo italiano non vuole ricapitalizzare e nel 1978 si fa sotto solitario Carlo De Benedetti.
L´Olivetti viene ristrutturata, lancia nuovi prodotti, il primo personal computer, si riconverte dalla manifattura al servizio entrando con l´Omnitel nella telefonia cellulare. Poi fu Telecom, l´Opa di Colaninno con la «Razza Padana», la madre di tutte le privatizzazioni che ha segnato la cronaca e la storia del capitalismo e della politica nell´ultimo decennio.
Cosa fu l´Olivetti e chi Adriano? Un capitalista capitano d´industria di cui si è perso lo stampo o un mistico visionario, velleitario e paternalista che con la sua Comunità pensava di cambiare il mondo? Certo, l´uomo non difettava di due qualità: l´indipendenza, merce assai rara in questo paese, dove prevale sempre l´ala protettrice di qualcuno o l´area di riferimento, e in più il culto del prodotto, la cosa che si tocca, possibilmente bella, frutto della genialità dell´imprenditore e del lavoro operaio. Quanto all´azienda che antepone l´uomo al profitto preoccupata della libertà e del benessere dei suoi lavoratori, né Emma Marcegaglia, né alcuno dei suoi associati in Confindustria, tutti giustamente protesi alla produttività, sembrano al momento particolarmente sensibili. Ma non è stato il suo recente predecessore confindustriale Luca Montezemolo a dire olivettianamente che «il fine delle aziende è il benessere di chi vi lavora»? Con questa confusione sotto il cielo, tutto torna utile, persino strattonare il ricordo dell´utopista di Ivrea, che in altri tempi, nell´Italietta che usciva dalla guerra, fece grande un´azienda con il lavoro e la creatività.